mercoledì 21 novembre 2018

01-03-A - La Rivoluzione di luglio 1830

LA RIVOLUZIONE DI LUGLIO 1830
 
La libertà guida il popolo, Eugène Delacroix, 1830

Con la rivoluzione di luglio, nota anche come rivoluzione del 1830, seconda rivoluzione francese e Trois Glorieuses, avvenuta a Parigi nelle giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830, fu rovesciato Carlo X ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, e sostituito da Luigi Filippo, il re della monarchia di luglio.
Dopo un lungo periodo di crisi ministeriali prima, parlamentari poi, re Carlo X tentò un colpo di mano anti-costituzionale emanando le «ordinanze di Saint-Cloud» il 25 luglio 1830. In reazione il movimento di opposizione si trasformò rapidamente in rivoluzione repubblicana: il popolo parigino si sollevò, eresse le barricate e affrontò le truppe comandate dal maresciallo Marmont in combattimenti che provocarono almeno ottocento morti fra gli insorti e circa duecento fra i soldati.
Carlo X la famiglia abbandonarono che Parigi. I deputati liberali, in maggioranza monarchici, presero le redini della rivoluzione popolare e conservarono la monarchia costituzionale al prezzo di un cambiamento di dinastia. La casa d'Orléans, ramo cadetto di quella di Borbone, succedette sul trono di Francia con Luigi Filippo, proclamato «re dei Francesi» e non più «re di Francia».
La rivoluzione del 1830 non provocò rivolgimenti istituzionali né in Francia né in Europa, ma per la prima volta dal tempo della rivoluzione del 1789 un'ondata di rivoluzioni popolari attraversò l'Europa.


Le cause

L'irrigidimento di Carlo X: la costituzione del ministero Polignac

Carlo X
Il principe Jules de Polignac
Con le elezioni del 1827 i liberali divennero maggioranza in Parlamento e Carlo X consentì a nominare un primo ministro che stesse a metà strada tra le posizioni ultrarealiste e quelle liberali. Chiamò il visconte de Martignac a formare un ministero semi-liberale e semi-autoritario, ma intanto l'opposizione liberale andava aumentando i suoi consensi nel paese.
Constatando il fallimento del suo tentativo di compromesso, Carlo X preparò segretamente un cambiamento di rotta politica: durante l'estate del 1829, quando le Camere erano in vacanza, licenziò il visconte di Martignac sostituendolo con il principe di Polignac. Pubblicata nel quotidiano Le Moniteur l'8 agosto, la notizia ebbe l'effetto d'un'esplosione: il nuovo ministro evocava i peggiori ricordi della corte di Versailles, al suo fianco, il conte de La Bourdonnaye, ministro dell'Interno, era un ultrarealista fanatico, che nel 1815 aveva reclamato «supplizi, ferro, carneficine e morte» per i complici di Napoleone, mentre il ministro della Guerra, il generale Bourmont, era un vecchio ribelle, poi passato a Napoleone prima di tradirlo pochi giorni prima della battaglia di Waterloo.
L'opposizione, di conseguenza, si espresse con indignato clamore. Bertin, direttore del Journal des débats, pubblicò un articolo che si concludeva con la formula: «Disgraziata Francia! Disgraziato re!», stigmatizzando «la corte con i suoi vecchi rancori, l'emigrazione con i suoi pregiudizi, il clero con il suo odio per la libertà».
Polignac, era un fanatico bigotto maniaco del diritto divino dei re. Carlo X e Polignac stesso volevano ristabilire la monarchia assoluta, quella prima del 1789, mentre l’opposizione voleva una monarchia parlamentare. In realtà, queste erano due concezioni della monarchia costituzionale, ossia due interpretazioni della Costituzione del 1814, che si affrontavano nel 1829/1830. Da una parte il re voleva attenersi a una interpretazione stretta della Carta: per lui, il re poteva nominare i ministri di sua scelta e doveva rinviarli alle Camere solo nei due casi previsti, tradimento e concussione. Dall'altra parte, i liberali avrebbero voluto far evolvere il regime alla forma inglese, verso un parlamentarismo che la Costituzione non aveva esplicitamente previsto: essi ritenevano che il ministero avrebbe dovuto avere la fiducia della maggioranza della camera dei deputati. Questo dibattito venne risolto solo dalla rivoluzione di luglio.


L'indirizzo dei 221

All'inizio del 1830 il clima politico in Francia era elettrico. Thiers, Carrel, Mignet e Sautelet inaugurarono, il 3 gennaio 1830, un nuovo quotidiano di opposizione, Le National che con Le Globe e Le Temps iniziò una dura campagna a favore di una monarchia parlamentare, evocando apertamente la gloriosa rivoluzione inglese del 1688, conclusasi con la deposizione di Giacomo II.
Il 2 marzo 1830, all'apertura della sessione parlamentare, Carlo X pronunciò il discorso della Corona, annunciando la spedizione coloniale ad Algeri e minacciando, implicitamente l'opposizione, di governare per decreti in caso di ostruzionismo.
Per tutta risposta il 16 marzo la Camera dei deputati votò il cosiddetto indirizzo dei 221 (dal nome del numero dei deputati dell’opposizione), con il quale espresse la propria richiesta a Carlo X di sostituire il ministero del conservatore principe di Polignac con uno più affine alle nuove Camere e, soprattutto, di accettare una modifica della Carta verso un regime parlamentare.
Il 18 marzo l'indirizzo venne presentato al re: questi rispose, con arroganza e determinazione: “le mie risoluzioni sono immutabili”. Il giorno dopo un'ordinanza aggiornava la sessione dei lavori parlamentari al 1º settembre. Disse il re: “preferisco salire a cavallo (quello dell'esilio) che in carretta (quella della ghigliottina)”.


Una situazione sempre più esplosiva

La decisione di Carlo X suscitò una vera ebollizione: circolavano le più diverse dicerie. Si accusava il re e i suoi ministri di preparare un colpo di Stato, altri sostenevano che Polignac, già ambasciatore a Londra e amico del primo ministro britannico, il duca di Wellington, pensava di richiedere, con l'appoggio inglese, l'aiuto delle potenze straniere nel caso in cui il re fosse indotto a sospendere o modificare la Costituzione.
Nell'aprile del 1830 il conte de Montlosier pubblicò l'opuscolo Le Ministère et la Chambre des députés, nel quale sosteneva che, se i diritti reali erano incontestabili al riguardo della scelta dei ministri, era lecito tuttavia contestare la convenienza delle sue scelte.
Al Palais-Royal, Vatout, bibliotecario e intimo del duca d'Orléans, consigliò a quest’ultimo di utilizzare la situazione a proprio profitto. I familiari del duca, il generale Gérard, Thiers, Talleyrand[1] e altri, erano ormai persuasi che il ramo maggiore dei Borbone fosse perduto, ma Luigi Filippo tergiversava.
Il 16 maggio 1830, quando il corpo di spedizione fu pronto a partire alla conquista di Algeri, Carlo X sciolse la Camera dei deputati e convocò i collegi circoscrizionali per il 23 giugno e quelli dipartimentali per il 3 luglio. Nell'immediato la decisione del re provocò un rimescolamento degli incarichi di governo.
Il 13 giugno Carlo X pubblicò sul Moniteur un appello ai francesi, accusando i deputati «di non aver compreso le [sue] intenzioni» e chiese agli elettori «di non lasciarsi distogliere dal linguaggio insidioso dei nemici della quiete», di «respingere le supposizioni indegne e le false lamentele di chi farebbe strage della pubblica fiducia e potrebbe spingere a gravi disordini» e concluse: «È il vostro re che lo domanda. È un padre che vi chiama. Adempite ai vostri doveri e io adempierò ai miei». La manovra fu rischiosa perché il re si espose in prima persona.
Le elezioni furono una grave sconfitta per il re: l'opposizione passò da 221 a 270 deputati, i governativi da 181 a 145 e tredici deputati furono disputati dai due campi.


La presa di Algeri

Sin qui Carlo X aveva seguito il percorso costituzionale indicato dal fratello e predecessore Luigi XVIII. Ne seguiva, giurisprudenzialmente e logicamente, la necessità di dichiarare un vincitore e chiudere il contrasto.
Tuttavia questa non era l'opinione del re, il quale era dominato da ben altri pensieri: lui stesso fratello minore di Luigi XVI, il re ghigliottinato, ricordava bene come quest'ultimo avesse perso il trono proprio a causa di un eccesso di accomodamento nei confronti di una maggioranza recalcitrante. Nella sua ostinata determinazione la corte era sostenuta dai contemporanei successi di politica estera: il 9 luglio giunse a Parigi la notizia del grande successo militare della conquista di Algeri. Il successo, unito alle rassicurazioni offerte dal prefetto di polizia che «Parigi non si muoverà», confortarono il sovrano e i suoi ministri a forzare l'impasse politica interna.
Di fronte a un simile rafforzamento della posizione della corte e del governo i deputati liberali più vicini al duca d'Orléans proposero di sostenere il ministero, insieme a un inasprimento alla legge elettorale e alle leggi sulla stampa, chiedendo in compenso l'ingresso al governo di tre ministri liberali. Nemmeno fra i deputati più a sinistra si prendeva in considerazione il ricorso alla piazza: la gran parte dei deputati liberali, espressione dell'aristocrazia e della grande borghesia, tenevano ai privilegi offerti loro dalla vigente legge elettorale censuaria e non erano affatto democratici. Essi temevano un'insurrezione popolare quanto e forse più della corte, non avendo i mezzi per gestirla. A cosa corrispondessero le intenzioni dei più esagitati di loro si vide il 10 luglio, allorché una quarantina di deputati e di pari di Francia, riuniti presso il duca de Broglie, promisero di rifiutare il voto sul bilancio, ovvero la massima minaccia concepita da uno dei teorici estremi del liberalismo, il Constant.


Il detonatore: le ordinanze di Saint-Cloud

A partire dal 10 luglio il sovrano e i suoi ministri presero a predisporre, nel più grande segreto, la successiva mossa: stabilirono di potersi servire di un ultimo appiglio costituzionale (l'Art. 14 della Carta) che attribuiva al sovrano il potere di fare «i regolamenti e le ordinanza necessarie per... la sicurezza dello Stato». Il 25 luglio 1830 Carlo X riunì il ministero nella propria residenza estiva al castello di Saint-Cloud, nell'immediata periferia occidentale di Parigi, e registrò la loro firma a sei ordinanze, dette ordinanze di Saint-Cloud:
La prima imponeva l'autorizzazione preventiva necessaria per tutte le pubblicazioni: in pratica la soppressione della libertà di stampa.
La seconda disponeva la dissoluzione della Camera dei deputati: per la seconda volta in settanta giorni, senza che la nuova assemblea, appena eletta, si fosse riunita una sola volta.
La terza introduceva una modificazione della legge elettorale: da sempre censuaria, ai fini del calcolo delle soglie di ammissione, venivano da ora considerati i soli redditi fondiari (con esclusioni di quelli derivanti dai commerci, dalla finanza e in generale dalle professioni liberali). Per soprammercato l'ammissione non sarebbe stata automatica, ma anzi i prefetti avrebbero stilato una lista degli elettori solo cinque giorni prima delle elezioni, rendendo impossibile ogni ricorso. Veniva infine reintrodotto un sistema di elezione a due livelli, simile a quello della Legge del doppio voto del 1820.
La quarta stabiliva la data delle nuove elezioni: 6 e 13 settembre.
La quinta e la sesta nominavano a consiglieri di Stato dei noti esponenti di parte ultrarealista.
Per giunta le ordinanze risultavano gravemente lesive degli interessi di due solide componenti della società francese: anzitutto la maggioranza della Camera, che si vedeva certamente preclusa da una successiva vittoria elettorale; poi la stampa di opposizione, che si sapeva destinata a subita chiusura. Non stupisce quindi che siano stati proprio gli operai tipografici a reagire per primi, avviando la sollevazione.


Cronologia

26 luglio: fermenta la rivolta
Le sei ordinanze furono sottoscritte domenica 25 luglio. Quel giorno, alle 11 di sera, il guardasigilli Chantelauze fece consegnare il testo al redattore capo del Moniteur, il foglio ufficiale, comandandone la stampa quella notte, in vista della pubblicazione per l'indomani, lunedì 26 luglio 1830.
Il lunedì del 26 luglio la pubblicazione delle ordinanze immerse il Paese in un vero e proprio stato di stupore. L'atto di forza era atteso, ma non si pensava che fosse portato prima della riunione delle Camere, prevista per il 3 agosto. L'effetto della sorpresa fu dunque totale e la maggior parte degli oppositori non era ancora rientrata a Parigi.
Il deputato Gilbert du Motier de La Fayette, generale, militare e politico francese con cittadinanza statunitense, protagonista sia della Rivoluzione americana prima sia della Rivoluzione francese poi, si oppose fermamente alle restrizioni che Carlo X impose alle libertà civili e all'introduzione della censura della stampa. Pronunciò dei discorsi infuocati alla Camera, denunciando i nuovi decreti e sostenendo un governo rappresentativo in stile americano.
Nel primo pomeriggio i proprietari del giornale Constitutionnel organizzarono una riunione dal loro legale, André Dupin, deputato liberale e avvocato di Luigi Filippo, duca d'Orléans. Dupin spiegò che le ordinanze erano in contrasto con la Costituzione, ma alla proposta di Charles de Rémusat (politico e filosofo) di presentare una protesta, Dupin obiettò che la riunione si stava tenendo in uno studio legale e non avrebbe dovuto assumere un aspetto politico. Rémusat e l’editore Leroux si recarono allora negli uffici del giornale National, dove era in corso una riunione con Thiers e altri. Il giornale pubblicò un'edizione straordinaria invitando alla resistenza attraverso il mezzo dello sciopero delle imposte. Thiers e Rémusat proposero di organizzare una protesta solenne, subito redatta, firmata da quarantaquattro giornalisti e pubblicata il mattino dopo dai giornali Le National, Le Globe e Le Temps: «Il regime legale è... interrotto, è iniziato quello della forza. Nella situazione in cui siamo, l'obbedienza cessa di essere un dovere... perché oggi ministri criminali hanno violato la legalità. Siamo dispensati d'obbedire. Cercheremo di pubblicare i nostri giornali senza richiedere l'autorizzazione che ci viene imposta».
Nello stesso momento i deputati liberali presenti a Parigi cercarono di organizzarsi, ma ancora in maniera timida perché temevano la reazione del governo.
Contemporaneamente cominciarono a formarsi assembramenti al Palais-Royal, a place du Carrousel e a place Vendôme, sotto la spinta dell'Associazione di gennaio. Si gridò: «Vive la Charte! À bas les ministres! À bas Polignac!». I manifestanti riconobbero la carrozza di Polignac che, col barone d'Haussez, rientrava al ministero degli Esteri. Si lanciarono pietre e dei vetri si ruppero fra le imprecazioni del barone, ma la carrozza riuscì a entrate nel ministero, i cui portoni furono subito chiusi.

27 luglio: dalla sommossa all'insurrezione
Il 27 luglio, ignorando le ordinanze, Le National, Le Temps, Le Globe e Le Journal du commerce pubblicarono senza autorizzazione la protesta dei giornalisti: il prefetto di polizia, Claude Mangin, ordinò il sequestro dei quattro quotidiani e vennero spiccati i mandati di arresto per i firmatari della protesta; si verificarono anche tafferugli fra la polizia e gli operai delle tipografie, i quali temevano di perdere il lavoro e avrebbero poi formato lo zoccolo duro dell'insurrezione.
Da almeno un anno attivisti repubblicani e bonapartisti avevano preparato il terreno. Anche se pochi, i repubblicani erano tuttavia attivi e determinati, tra questi:  Godefroi Cavaignac[2], François Vincent Raspail[3], e Auguste Blanqui. I bonapartisti, generalmente vecchi soldati del Primo Impero, erano più numerosi ma, più discretamente, agivano all'interno di società segrete, sotto l'egida della Carboneria.
Intanto primi gruppi di rivoluzionari avevano cominciato a scontrarsi con la polizia e la gendarmeria intorno al Palais-Royal. Studenti e operai dell'Associazione patriottica di Morhéry innalzarono barricate. La folla (formata per la maggior parte da emarginati, da vittime della crisi economica, artigiani, commercianti e impiegati, molti dei quali avevano fatto parte della disciolta Guardia Nazionale, soppressa nel 1827) era esasperata per l'annuncio della nomina del maresciallo Marmont a comandante della 1ª divisione militare di Parigi. Come Bourmont, agli occhi del popolo Marmont rappresentava l'archetipo del traditore. Quella sera i soldati cominciarono a sparare e si contarono i primi morti: da questo momento cominciava la rivoluzione.
La repressione cominciò l'azione menomata dal ritardo con cui il prefetto di polizia e le autorità militari vennero informati della pubblicazione e dall'assenza dalla capitale del ministro della guerra, maresciallo Bourmont, a capo della spedizione: solo a cose fatte il ministero assunse le necessarie severe misure di resistenza.
Quando La Fayette, che era nel suo Château, fu informato di quello che stava accadendo, corse in città e fu acclamato come uno dei leader della rivoluzione. Mentre i suoi colleghi deputati erano indecisi, La Fayette si presentò alle barricate e ben presto le truppe realiste furono sconfitte. Temendo che gli eccessi della rivoluzione del 1789 si stessero per ripetere, i deputati resero La Fayette nuovamente comandante in capo di una restaurata Guardia Nazionale con il compito di mantenere l'ordine. La Camera era disposta addirittura a proclamare la Repubblica e a nominarne La Fayette presidente, ma questi rifiutò questa concessione di potere che riteneva incostituzionale.

28 luglio: la rivoluzione
Il mattino del 28 luglio il centro e la zona orientale della capitale erano irte di barricate e gli insorti svuotarono le armerie al canto della Marsigliese; alle undici i ministri, con Polignac in testa, si rifugiarono nelle Tuileries[4] da Marmont, che giudicava molto seria la situazione e pertanto mandò al re un messaggio rimasto famoso: «Non è più una sommossa, è una rivoluzione. È urgente che Vostra Maestà decida misure di pacificazione. L'onore della Corona può ancora essere salvato. Forse domani sarà troppo tardi».
Carlo X non rispose, ma la sera Polignac informò Marmont che Carlo X aveva firmato l'ordinanza di stato d'assedio: Marmont aveva così i pieni poteri per schiacciare la rivoluzione, ma disponeva di soli 10.000 soldati, che giudicò insufficienti (la capitale era stata sguarnita per costituire il corpo di spedizione coloniale) per mandare truppe in Normandia, dove imperversavano incendi dolosi, e per controllare la frontiera belga, dove si temevano disordini.
Durante la giornata i soldati erano sotto una pioggia di proiettili provenienti dalle stradine barricate del centro storico di Parigi. Gli insorti avevano conquistato l'Hôtel de Ville (il Municipio), sul cui tetto sventolava il tricolore, con intensa emozione della popolazione. L'edificio, di alto valore simbolico, venne perduto e ripreso più volte.
Intanto i deputati liberali continuavano a cercare una soluzione di compromesso allo scopo di ottenere il ritiro delle ordinanze, ma il re rifiutò ogni concessione. I deputati decisero di designare una commissione di cinque membri per ottenere un cessate il fuoco. La delegazione dei deputati fu ricevuta da Marmont: il maresciallo, invocando gli ordini del re, esigette la fine dell'insurrezione mentre i deputati reclamavano il ritiro delle ordinanze e il licenziamento del governo. La discussione ebbe presto termine perché Polignac rifiutò di ricevere i deputati. Marmont mandò un messaggio a Carlo X: «È urgente che Vostra Maestà approfitti senza indugio delle aperture fatte», mentre contemporaneamente Polignac mandava un emissario chiedendo al re di non cedere. La risposta del re a Marmont fu di «tener duro» e concentrare le truppe tra il Louvre e gli Champs-Élysées.
Nella notte fra il 27 e il 28 luglio il duca d'Orléans venne avvertito che un battaglione della Guardia reale aveva ricevuto l'ordine di circondare il suo castello di Neuilly «al minimo movimento che possa far supporre la sua intenzione di unirsi all'insurrezione» e Luigi Filippo passò quindi la notte in un casolare al fianco del piccolo castello di Villiers.
l combattimenti davanti all'Hôtel de Ville 28-7-1830, di Jean-Victor Schnetz

29 luglio: la vittoria dell'insurrezione
Nella notte del 28-29 luglio si innalzarono nuove barricate; nella mattina il 5º e il 53º Reggimento che tenevano place Vendôme passarono agli insorti. Per colmare il vuoto prodottosi nelle sue file Marmont dovette sguarnire il Louvre e le Tuileries che, subito attaccati, caddero nelle mani degli insorti, mentre le truppe reali ripiegarono in disordine fino all'Étoile. La sera l'insurrezione era padrona di Parigi e i resti dell'esercito di Marmont si concentrarono al Bois de Boulogne a protezione della residenza reale di Saint-Cloud.
All'alba del 30 luglio due Pari di Francia, il marchese de Sémonville e il conte d’Argout, si recarono alle Tuileries chiedendo le dimissioni di Polignac e il ritiro delle ordinanze: alla fine del tempestoso colloquio si precipitarono dal re, proprio mentre questi apprese la notizia della sconfitta di Marmont. Quella stessa mattina il deputato generale Gérard chiese non solo il ritiro delle ordinanze e il licenziamento di Polignac, ma l'affidamento al duca de Mortemart di un nuovo governo. Carlo X, privo ormai di ogni altra risorsa, accettò quelle condizioni.
Giunta notte, mentre la capitale restava nelle mani dei rivoluzionari, il trono di Carlo X appariva condannato.
L'attacco al Louvre del 29 luglio 1830

30 luglio: la borghesia prende il potere
Il 30 luglio deputati e giornalisti entrarono in scena per utilizzare la rivoluzione popolare a profitto della borghesia. Venne scartata la soluzione istituzionale repubblicana per timore che questa innescasse processi incontrollabili per gli interessi delle forze moderate: la soluzione di una monarchia orléanista fu pertanto giudicata la migliore per fare lo sgambetto ai repubblicani, che non furono capaci di darsi un'organizzazione.
L'offensiva venne lanciata all'alba di venerdì 30 luglio da Jacques Laffitte[5]Thiers, rientrato il giorno prima a Parigi, con la benevolente complicità di Talleyrand che da qualche tempo puntava sul duca d'Orléans per salvare la monarchia. Thiers e Mignet scrissero sul National un appello: «Carlo X non può rientrare a Parigi: egli ha fatto scorrere il sangue del popolo. La repubblica ci esporrebbe a terribili divisioni e ci inimicherebbe l'Europa. Il duca d'Orléans è un principe devoto alla causa della rivoluzione. Il duca d'Orléans non si è mai battuto contro di noi. Il duca d'Orléans ha portato in alto il tricolore. Il duca d'Orléans soltanto può portarlo ancora: non ne vogliamo un altro. Il duca d’Orléans si è pronunciato; accetta la Costituzione come l'abbiamo sempre voluta. È il popolo francese che terrà la sua corona».
Nel Palazzo Borbone, la sede del Parlamento, i deputati consideravano Carlo X decaduto e designarono una commissione di cinque membri per discutere con i pari, i quali si recarono al Palazzo del Luxembourg spiegando al duca di Mortemart che Carlo X aveva cessato di regnare e che il duca d'Orléans era l'unico riparo dalla repubblica; Mortemart ammise che, a suo giudizio, la soluzione indicata era la meno peggiore e anche gli altri pari presenti erano concordi.
A mezzogiorno i deputati si riunirono ancora a Palazzo Borbone tranne uno, devoto a Carlo X, e pochi favorevoli alla repubblica, tutti gli altri erano per Luigi Filippo; l'unico problema per loro era se considerarlo luogotenente generale del regno o re a tutti gli effetti. Venne scelta la proposizione redatta dal nobile intellettuale Benjamin Constant nella quale si «prega S. A. R. M. il duca d'Orléans di venire nella capitale per esercitarvi le funzioni di luogotenente generale del regno» esprimendogli «il voto di conservare i colori nazionali».
Adesso non restava che convincere Luigi Filippo che fosse venuto il tempo di decidersi, ma il duca d'Orleans temette di entrare a Parigi troppo presto, pensando che Carlo X non fosse ancora fuori gioco. Giudicando prudente aspettare ancora, Luigi Filippo lasciò Neuilly per il suo castello di Raincy, a Levallois

31 luglio: l'entrata in scena di Luigi Filippo
Luigi Filippo lasciò Neuilly alle dieci di sera, diretto al Palais-Royal. Durante il cammino rese visita a Talleyrand, assicurandosi il suo appoggio. A mezzanotte giunse al Palais-Royal, dove passò la notte.
Alle quattro del mattino Mortemart arrivò da Luigi Filippo, che dormiva su un materasso gettato a terra, in una piccola stanza dove faceva un caldo soffocante. Il duca d'Orléans si alzò, senza camicia né parrucca, tutto sudato e tenne un lungo discorso a Mortemart per convincerlo della sua fedeltà al re: «Se vedrete il re, ditegli che sono stato condotto a Parigi a forza [...] che mi farò fare a pezzi piuttosto che lasciarmi posare la corona in testa», informandolo che i deputati l'avevano nominato luogotenente generale per ostacolare la formazione della repubblica, gli chiese se egli era disponibile a riconoscere questa nomina. Alla sua risposta negativa il duca gli consegnò una lettera per il re, dove confermava la sua lealtà e dichiarò che se fosse stato costretto a esercitare il potere, sarebbe solo pro tempore e nell'interesse della casata. 
Luigi Filippo lascia il Palais-Royal per l'Hôtel de Ville il 31 luglio 1830, Horace Vernet 1832

     Qualche ora dopo Luigi Filippo apprese che Carlo X, cedendo al panico e alla sfiducia, aveva lasciato la reggia di Saint-Cloud per il Trianon, un palazzo nei pressi di Versailles: fece subito richiamare Mortemart e si fece riconsegnare la lettera con il pretesto di portarvi delle correzioni. Ormai il dado era tratto, il trono era vacante e bastava sedervisi, quindi alle nove del mattino Luigi Filippo, ricevendo la delegazione dei deputati, dichiarò di non poter subito accettare la luogotenenza in ragione dei suoi legami di famiglia con Carlo X che gli imponevano doveri personali e perché intendeva anche chiedere consigli «a persone nelle quali ripongo fiducia e che non sono ancora qui». Quella che apparve una sua manovra, riuscì perfettamente: i deputati lo supplicarono di accettare immediatamente, agitando lo spettro di una repubblica che potrebbe essere presto proclamata all'Hôtel de Ville; in tal modo Luigi Filippo avrebbe sempre potuto affermare che gli si forzò la mano e che egli si era impegnato solo per salvare la monarchia. Il duca d'Orléans redasse un proclama, accettato dai deputati presenti:
«Parigini! I deputati della Francia, riuniti in questo momento a Parigi, hanno espresso il desiderio che io venissi in questa capitale per esercitarvi le funzioni di luogotenente generale del regno. Non ho esitato a venire a dividere con voi i pericoli, a mettermi fra questa eroica popolazione e a fare ogni sforzo per evitarvi la guerra civile e l'anarchia. Entrando nella città di Parigi portavo con orgoglio questi gloriosi colori che voi avete ripresentato e che io stesso avevo portato a lungo. Le Camere stanno per riunirsi; esse assicureranno il regime delle leggi e il mantenimento dei diritti della nazione. La Costituzione sarà finalmente una verità».
Accogliendo questo proclama, i deputati risposero nel pomeriggio:
«Francesi! La Francia è libera. Il potere assoluto ha ammainato la sua bandiera, l'eroico popolo di Parigi l'ha abbattuto. Parigi attaccata ha fatto trionfare con le armi la sacra causa che aveva invano trionfato alle elezioni. Un potere usurpatore dei nostri diritti, perturbatore della nostra quiete, minacciava la libertà e l'ordine; noi riprendiamo possesso dell'ordine e della libertà. Niente più timori per i diritti acquisiti, niente più barriere tra noi e i diritti che ancora ci mancano.
Il duca d’Orléans
Un governo che, senza indugio, ci garantisca questi beni, è oggi il primo bisogno della patria. Francesi! I deputati che si trovano già a Parigi si sono riuniti e, attendendo il regolare intervento delle Camere, hanno invitato un Francese che ha sempre combattuto soltanto per la Francia, il Signor duca Orléans, a esercitare le funzioni di luogotenente generale del regno. Ai loro occhi è il mezzo per compiere prontamente, nell'interesse della pace, il successo della più legittima difesa. Il duca d'Orléans è devoto alla causa nazionale e costituzionale. Ne ha sempre difeso gli interessi e professato i princìpi. Egli rispetterà i nostri diritti, perché essi sono i suoi stessi, noi ci assicureremo con le leggi tutte le garanzie necessarie per rendere la libertà forte e durevole: la ricostituzione della Guardia nazionale con l'intervento delle guardie nazionali nella scelta degli ufficiali; l'intervento dei cittadini nella formazione delle amministrazioni dipartimentali e municipali. il giurì per le garanzie della stampa; la responsabilità legalmente costituita dei ministri e dei funzionari dell'amministrazione; lo stato dei militari assicurato legalmente; la rielezione dei deputati promossi a funzioni pubbliche.
Daremo alle nostre istituzioni, di concerto con il Capo dello Stato, gli sviluppi di cui esse hanno bisogno. Francesi! Il duca d’Orléans stesso ha già parlato e il suo linguaggio è quello che conviene a un paese libero: le Camere stanno per riunirsi, vi dice; esse troveranno il modo di assicurare il regno delle leggi e il mantenimento dei diritti della nazione. La Costituzione sarà finalmente una verità».
Firmato da quasi novanta deputati, l'atto venne portato al Palais-Royal. Tuttavia la manovra in favore del duca d'Orléans, appena conosciuto all'Hôtel de Ville, suscitò la rabbia dei repubblicani.
Il duca d'Orléans avrebbe quindi dovuto recarsi all'Hôtel de Ville per eliminare definitivamente, con la complicità di La Fayette, lo spettro della repubblica. La manovra ebbe qualche rischio, ma fu indispensabile. Alle due del pomeriggio un corteo picaresco lasciò il Palais-Royal.
Mentre il corteo avanzava con difficoltà sul lungosenna attraverso le barricate verso l'Hôtel de Ville, altre grida si levarono da una folla sempre più ostile: "Abbasso i Borboni! Basta con i Borboni! A morte i Borboni! Abbasso il duca d'Orléans!". Arrivato all'Hôtel de Ville Luigi Filippo, vestito in uniforme di guardia nazionale, esclamò, indicando il generale La Fayette, il quale trascinò Luigi Filippo al balcone dove i due, al di sopra della folla ammassata, si abbraccirono platealmente, avvolti ciascuno da una grande bandiera tricolore. La brillante messa in scena e il «bacio repubblicano» di La Fayette, secondo l'ironica formula di Chateaubriand, consegnava definitivamente il trono a Luigi Filippo.




[1] Principe e politico, considerato tra i maggiori esponenti del camaleontismo. Servì la monarchia di Luigi XVI, poi la Rivoluzione francese nelle sue varie fasi, l'impero di Napoleone Bonaparte e poi di nuovo la monarchia, questa volta quella di Luigi XVIII, fratello e successore del primo monarca servito. Infine aiutò l’ascesa di Luigi Filippo, l’ultimo re di Francia.
[2] Figlio del generale francese Jean-Baptiste Cavaignac, deputato della Convenzione nazionale e di Marie-Julie de Corancez, letterata. Fin dalla tenera età fu educato ad occuparsi di politica, cosicché si ritrovò celebre quando aveva ancora solo 20 anni. Profondamente antimonarchico, fu il fulcro del movimento rivoluzionario che portò allo scoppio dei moti del 1830-31.
[3] François Vincent Raspail è stato un politico e scienziato francese. Affiliato alla Carboneria, partecipò alla Rivoluzione di Luglio e fu ferito durante l'attacco a una caserma. L'11 gennaio 1870 denunciò le manovre della Corte per mandare impunito il principe Pierre Napoléon Bonaparte, responsabile della morte di Victor Noir, che fu infatti assolto in marzo dai giudici compiacenti. Fu a Parigi durante l'assedio e la Comune, mantenendo un atteggiamento neutrale, ma per aver commemorato il Comunardo Louis Charles Delescluze nel suo Almanach et calendrier météorologique de 1874, fu condannato, lui ottantenne, a un anno di prigione.
[4] Il Palazzo delle Tuileries servì come residenza reale fino al 1848.
[5] Politico e banchiere fu uno dei primi a considerare la salita al trono, in caso di necessità, del duca d'Orléans. Nel corso di molti anni accarezzò e portò avanti il progetto, soprattutto procurando sostenitori al principe.