FELICE ORSINI
Orso Teobaldo Felice Orsini nacque il 10 dicembre 1819 a Meldola, una cittadina
romagnola dello Stato Pontificio, sulle prime pendici dell'Appennino forlivese,
ed è stato uno scrittore e rivoluzionario italiano, noto per aver tentato di
assassinare l'imperatore francese Napoleone
III. Anticlericale, venne
descritto come anarchico, anche se propriamente era un mazziniano eretico, come
Pisacane[1]. Fu un acceso sostenitore dell'indipendenza della sua
terra d'origine, la Romagna, dal dominio dello Stato Pontificio.
Il padre Giacomo Andrea (1788-1857), originario di Lugo, ex
ufficiale al seguito di Napoleone I durante la Campagna di Russia, era iscritto
alla Carboneria di Bologna, ma era al tempo stesso un confidente della polizia
pontificia. Sua madre si chiamava Francesca Ricci (1799-1831) e proveniva da
Firenze. Il secondo nome, Teobaldo, gli fu assegnato dal padre in omaggio alla
figura di san Teobaldo di Provins, il santo protettore degli adepti della
Carboneria.
In tenera età venne trasferito da Bologna ad Imola, dove fu
affidato alle cure amorevoli del facoltoso zio paterno, Orso Orsini
(1786-1864), uomo
profondamente conservatore che aveva
fatto fortuna nella coltivazione e nel commercio della canapa. Fin dall'adolescenza dimostrò
un carattere irrequieto tanto da essere coinvolto a soli 16 anni, il 5 luglio 1836, nella morte del cuoco di famiglia, nonché uomo di fiducia dello zio, Domenico Spada, ucciso, in
circostanze mai del tutto chiarite, da un colpo di pistola partito proprio
dalla sua pistola. Felice nelle sue Memorie
scrisse che si trattò di un incidente mentre si esercitava con la pistola
sottratta di nascosto allo zio. In realtà dagli atti processuali risulterebbe
che il giovane, invaghitosi di una serva, fosse insofferente della presenza
dello Spada che lo sorvegliava su incarico del familiare. Felice Orsini fuggì
dopo l'omicidio e lo zio Orso, intimo amico del vescovo di Imola Mastai
Ferretti futuro Papa Pio IX, cercò
allora di proteggere il nipote dalla grave accusa di omicidio volontario mossa
dal fratello della vittima, memore delle numerose liti precedentemente
scoppiate tra i due. Probabilmente grazie ai buoni uffici con le autorità
pontificie, i giudici accettarono la versione del colpo partito accidentalmente
e lo condannarono a sei mesi di carcere per solo omicidio colposo. Egli però
riuscì ad evitare anche tale detenzione ottenendo l'ammissione in seminario,
presso il convento degli Agostiniani di Ravenna, dopo aver inviato una supplica
al papa Gregorio XVI. Ben presto,
però, com'era prevedibile, Orsini abbandonò il convento per trasferirsi a
Bologna dal padre; in seguito tornò ad Imola dal protettivo zio, che lo
convinse a riprendere gli studi.
Fu proprio nel periodo universitario,
cui seguì la laurea in giurisprudenza e l’inizio della carriera di avvocato,
che Felice cominciò ad avvicinarsi agli ambienti mazziniani entrando nella
Carboneria e maturando sempre più fortemente posizioni repubblicane ed
anticlericali. Sulla base di tali convinzioni Orsini prese parte ai moti di Romagna dell'agosto 1843 e, poi, fondò la società segreta
denominata «Congiura Italiana dei Figli della Morte», azione questa che gli
costò l’arresto e la condanna all’ergastolo da scontare presso la prigione
pontificia di Civita Castellana, nell'alto
Lazio.
Nel luglio 1846 uscì per l'amnistia di Pio IX. Stabilitosi a
Firenze, città natale della madre, continuò a dedicarsi attivamente alla
cospirazione e, nel 1848, si aggregò al corpo Cacciatori dell'Alto Reno del
comandante bolognese Livio Zambeccari. Tra le
loro file partecipò alla prima guerra d'indipendenza. Tornato a Firenze, il 28
giugno 1848 si sposò con Assunta Laurenzi.
Il matrimonio non lo distolse dalla sua
attività rivoluzionaria: seguace di
Giuseppe Mazzini, svolse attività rivoluzionarie nello Stato della Chiesa e nel
Granducato di Toscana. All'inizio del 1849 Orsini fu eletto deputato
all'Assemblea Costituente della Repubblica Romana, nel collegio della provincia
di Forlì, e fu commissario per affrontare situazioni difficili in varie città
che facevano parte della giovane repubblica: ad Ancona per affrontare il problema
rappresentato dal gruppo estremista della «Lega Sanguinaria», i cui membri tenevano la città nel terrore, uccidendo
a sangue freddo decine di persone, a Terracina e ad Ascoli. L'intervento
dell'esercito francese a sostegno del Papa obbligò Orsini a fuggire. Nel marzo
1850 si stabilì a Nizza, città al tempo compresa nel Regno di Sardegna, assieme alla moglie da cui
ebbe proprio in quel periodo le due figlie Ernestina (1851-1927) ed Ida (1853-1859). A Nizza aprì un'attività di copertura, la ditta "Monti
& Orsini", dedicata alla vendita della canapa prodotta e commerciata
dallo zio Orso. Sempre a Nizza conobbe l'esule berlinese Emma Siegmund[2], con
la quale instaurò un forte rapporto.
Non abbandonando le sue idee
insurrezionali, la tranquilla
vita da commerciante non gli si addiceva; nel settembre 1853, accettò la
richiesta di Mazzini di guidare un tentativo insurrezionale nella zona di
Sarzana e Massa, in Lunigiana. L'azione fallì sul nascere; Orsini decise quindi
di trasferirsi a Londra sotto la protezione del suo maestro, lasciando la sua
famiglia a Nizza.
Il fallimento riportato e la fuga a
Londra non gli impedirono di avviare due ulteriori tentativi l’anno successivo
sempre in Lunigiana e quindi in Valtellina, entrambi ancora una volta senza
fortuna. Durante il successivo viaggio clandestino nell’impero austroungarico
in qualità di agente mazziniano, Felice fu arrestato in Ungheria
il 17 dicembre 1854 e rinchiuso nelle carceri austriache del Castello di San
Giorgio a Mantova. Due anni dopo, nella notte fra il 29 ed il 30 marzo 1856, Orsini fu protagonista di una rocambolesca fuga, nella
notte tra il 29 e il 30 marzo 1856, grazie all'aiuto della facoltosa Emma
Siegmund[2], che riuscì a corrompere i carcerieri e ad
accompagnarlo in carrozza fino a Genova, da dove s'imbarcò per l'Inghilterra. L’evasione da una delle più
sicure prigioni austriache, da una
delle fortezze del Quadrilatero[3],
ritenute inespugnabili e simboli della potenza austriaca nel Lombardo-Veneto,
venne subito ripresa dalla stampa di tutta Europa, anche per l'incidente
occorso ai fuggitivi che si tramutò in occasione di scherno verso il
proverbiale rigore asburgico. Infatti, l'immediata inchiesta ordinata
personalmente dal generale Radetzky, oltre alle complicità interne ed esterne
al carcere, appurò che la carrozza con a bordo Orsini e la Siegmund[2] ruppe il timone nel cremonese, davanti al posto di polizia
austriaco della fortezza di Pizzighettone. I due vennero soccorsi dai gendarmi che, inconsapevoli
dell’identità dei fuggitivi, li aiutarono a
sostituire il timone rotto con uno nuovo, preso dai magazzini della fortezza,
permettendo così ad Orsini e alla Siegmund[2] di
riprendere il viaggio
verso Genova. Dell'episodio si venne a conoscenza
per il fatto che la Siegmund[2], presentatasi con il falso cognome di O'Meara, lasciò
una somma per pagare il timone, ma la cosa non era prevista dai regolamenti
militari. Il responsabile della contabilità, quindi, inviò un dettagliato
rapporto all'amministrazione di polizia per sapere in quale capitolo potesse
imputare l'entrata, così svelando che la fuga di Orsini era stata ingenuamente
favorita proprio dalla gendarmeria austriaca. Uno dei secondini corrotti,
Tommaso Frizzi, trovato in possesso della forte somma di denaro ricevuta, fu
condannato a otto anni di carcere duro.
Tornato nel Regno Unito,
Orsini si rese conto di essere ormai diventato celebre in quel Paese e decise
di stabilirsi a Londra. La fuga dal Castello di San Giorgio
diede all'esule italiano una grande notorietà, ulteriormente amplificata dalla
stesura delle sue memorie, che scrisse
accettando la generosa offerta di un editore e che pubblicò nei volumi Austrian
Dungeons in Italy, del 1856, e Memoirs and Adventures dell'anno
successivo.
Ciò, ancora una volta, non indusse
Felice a venir meno all'impegno cospirativo che anzi, dopo un infruttuoso
tentativo di contatto con un Cavour (il
conte, da abile "tessitore" diplomatico qual era, fiutò il rischio di
compromettersi e si astenne prudentemente dal rispondere alle lettere di un
"estremista"), trovò nuova linfa nell'incontro con il chirurgo francese Simon Francois
Bernard[4].
Orsini lo conobbe nel 1857 sempre
a Londra, questi era un rivoluzionario francese fuggito in Inghilterra per
scampare all'arresto per cospirazione nel suo paese.
Orsini rimase affascinato dalle idee di Bernard, che gli parlò di un attentato a Napoleone III: con la sua eliminazione sarebbe venuta a mancare al Papa la decisiva protezione francese dello Stato Pontificio, che impediva la sua riunificazione all'Italia. Convinto dalle idee di Bernard, Orsini ruppe i legami con Giuseppe Mazzini e la sua strategia, da lui giudicata "perdente", e avviò con energia i preparativi per l’attentato da cui, fin troppo ottimisticamente, sperava che sarebbe derivata una rivoluzione in Francia e, quindi, in Italia.
Cause scatenanti dell'odio verso il monarca francese, che era già
sfuggito tre anni prima all'attentato dell'italiano Giovanni Pianori[5]
furono l'aver affossato la neonata Repubblica Romana restaurando il potere
temporale dei papi, e il fatto che Napoleone III avesse
quindi tradito gli ideali della Carboneria professati in gioventù negli anni
1830-1831.
Per l'occorrenza progettò e confezionò cinque bombe a mano con
innesco a fulminato di mercurio, riempite di chiodi e pezzi di ferro. Si trattò
di ordigni rudimentali ma efficaci, divenuti successivamente una delle armi più
usate negli attentati anarchici col nome di "Bombe all'Orsini".
L’attentato a Napoleone III |
L'attentato
ebbe luogo a Parigi e fu organizzato con l'aiuto di altri congiurati, tra i
quali Giovanni Andrea Pieri, Carlo Di Rudio e Antonio Gomez. Causò 12 i morti e 156 i feriti,
ma Napoleone III e la
consorte, protetti dalla blindatura opportunamente predisposta dal costruttore
della carrozza, rimasero illesi. Per notizie più dettagliate
sull’attentato e sui complici di Orsini, vi rimandiamo al capitolo «Felice
Orsini e l'attentato a Napoleone III».
Pur non avendo raggiunto l'obiettivo prefissato, l'attentato di
Orsini suscitò tuttavia un'enorme impressione e molta rabbia nell'opinione
pubblica francese, in gran parte favorevole all'amato sovrano, offrendo
all'imperatore l'occasione per attuare una fortissima azione repressiva che
portò all'arresto di moltissimi esponenti repubblicani francesi di opposizione.
Il breve processo che seguì fu
fortemente condizionato da una opinione pubblica , in larga parte, favorevole
al sovrano e nonostante la difesa del celebre avvocato Jules
Favre, il quale riuscì a far apparire i congiurati non già come terroristi
ma come patrioti che lottavano per liberare dall’oppressione il loro paese,
Orsini e Pieri furono condannati a morte mentre di Rudio e Gomez all’ergastolo.
Fu proprio allora, tuttavia, nel chiuso della sua cella alla Roquette e quando,
ormai, poche ore lo separavano dalla fine del suo viaggio terreno, che Felice
Orsini compì l’azione che più di ogni sua altra iniziativa avrebbe avuto la
capacità di incidere sul processo unitario italiano: senza chiedere la grazia,
infatti, egli redasse una lettera/testamento indirizzandola direttamente a Napoleone III e
concludendola con la frase rimasta celebre: «Sino a che l’Italia non sarà
indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella Vostra non saranno che una
chimera. Vostra Maestà non respinga il voto supremo d’un patriota sulla via del
patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la
seguiranno dovunque e per sempre». Forse memore del suo passato rivoluzionario,
l’imperatore fu tanto favorevolmente colpito da quelle parole che ne autorizzò
la pubblicazione sancendo, di fatto, l’elevazione del condannato a morte ad
eroe patriottico.
Alle sette di mattina del 13 marzo 1858
nella piazza della Roquette e subito dopo Pieri, Orsini venne ghigliottinato
dal boia Jean-Francois Heidenreich gridando con fierezza: «Viva l’Italia, viva
la Francia».
Questa è la lettera/testamento di Orsini indirizzata a Napoleone III.
A Napoleone III, Imperatore
dei Francesi,
«Le deposizioni che io ho fatte contro me stesso
nel processo istruito nell'occasione dell'attentato del 14 gennajo, sono
sufficienti per mandarmi alla morte, ed io la subirò senza chiedere grazia, sì perché
io non mi umilio innanzi
a colui che ha spenta la libertà nascente dell'infelice
mia patria, sì perchè nella condizione in cui mi trovo, la morte è per me un
beneficio.
«Presso al finire della mia carriera, io voglio
tuttavia tentare un ultimo sforzo per venire in aiuto dell'Italia, per
l'indipendenza della quale sono andato incontro a tutti i pericoli ed ho
sopportato tutti i sacrifìzii. Essa fu l'oggetto costante di tutte le mie
affezioni, ed è l'ultimo pensiero ch'ora voglio deporre nelle parole che
rivolgo alla Maestà Vostra.
«Per mantenere l'equilibrio attuale dell'Europa, è
d'uopo rendere l'Italia indipendente, o rendere più strette le catene fra le
quali l'Austria la mantiene schiava. Chiederò io che per liberarla il sangue
dei Francesi sia versato in favore degli Italiani? No, io non arriverò a tanto.
L'Italia chiede solo che la Francia non intervenga
contro di essa; chiede che la Francia non permetta alla Germania d'appoggiare
l'Austria nella lotta che forse sarà ben tosto impegnata. E ciò è appunto
quanto la Maestà Vostra può fare, ove voglia; da questa volontà, dunque,
dipende la felicità o l'infelicità della mia patria, la vita o la morte d'una
nazione, alla quale in gran parte l'Europa è debitrice del suo incivilimento.
«Questa è la preghiera che dalla mia carcere io oso
rivolgere alla Maestà Vostra, non disperando che la debole mia voce sarà
intesa. Io scongiuro Vostra Maestà a restituire all'Italia l'indipendenza che
i suoi figli hanno perduto nel 1849 per colpa dei Francesi. Vostra
Maestà si ricordi che gl'Italiani, fra i quali fu mio padre, versarono con
gioia il loro sangue per Napoleone il Grande, ovunque a lui piacque di
condurli; si ricordi ch'essi gli furono fedeli fino alla sua caduta; si ricordi
che fino a quando l'Italia non sarà indipendente, la tranquillità d'Europa e
quella della Maestà Vostra non saranno che una chimera.
«Non respinga la Maestà Vostra il voto supremo d'un
patriota sui gradini del patibolo; liberi la mia patria e le benedizioni di 25
milioni di cittadini la seguiranno nella posterità.
Dalla prigione di Mazas, 11 febbraio 1858.
Firmato: FELICE ORSINI.
[1] Carlo Pisacane
(Napoli, 22 agosto 1818 - Sanza, 2 luglio 1857), è stato un rivoluzionario del
Risorgimento italiano. Antiautoritario, precursore del socialismo libertario e
primo anarchico italiano, il suo pensiero è legato essenzialmente all'anarchismo proudhoniano.
[2] Emma Herwegh (nata Emma Siegmund:
10 maggio 1817 - 24 marzo 1904) era una salonniére tedesca e scrittrice di
lettere che partecipò alle rivolte del 1848, intraprendendo almeno una missione
segreta quasi diplomatica per conto della Legione dei Democratici tedeschi. È
nota ai posteri in particolare, in parte perché ha sposato il poeta e attivista
Georg Herwegh, e in parte perché era una scrittrice di lettere eccezionalmente
prolifica.
[3] Il Quadrilatero fu, tra il 1815 e
il 1866, un sistema difensivo costruito dall'Impero austriaco nel
Lombardo-Veneto, che si dispiegava su un quadrilatero i cui vertici erano le
fortezze di Peschiera del Garda, Mantova, Legnago e Verona, comprese fra il
Mincio, il Po, l'Adige e dal 1850 circa la ferrovia Milano-Venezia, tramite la
quale erano garantiti i rifornimenti. Difficilmente aggirabile, ostacolava i
movimenti di truppe nemiche nella Pianura Padana.
[4] Simon François Bernard, detto le
clubiste (Carcassonne, 28 gennaio 1817 – Londra, 25 novembre 1862), è stato un
medico e rivoluzionario francese naturalizzato inglese, noto per essere stato
coinvolto nel tentativo di Felice Orsini di assassinare l'imperatore francese Napoleone
III.
[5] Giovanni Pianori
detto il Brisighellino (Brisighella, 16 agosto 1823 – Parigi, 14 maggio 1855).
Nel dicembre del 1854 partì per Londra, probabilmente chiamato da Mazzini che
stava organizzando un moto insurrezionale europeo in accordo con patrioti
polacchi, ungheresi e francesi; questi ultimi (fra i quali Victor Hugo) erano
"furiosi" verso Luigi Napoleone che aveva fatto il colpo di stato e
si era proclamato imperatore. Dopo aver affossato la Repubblica Romana nel
1849, egli aveva pure affossato la Repubblica francese nel 1851-52. Ritenendo
di dover vendicare l'offesa fatta da Napoleone III all'Italia con l'occupazione
di Roma, rientrò a Parigi. Appostò l'imperatore agli Champs-Élysées, dov'era
solito compiere la sua passeggiata serale a cavallo; alle ore 17 del 28 aprile
1855 gli sparò contro due colpi - andati a vuoto - con una pistola a doppia
canna comprata a Londra. Subito bloccato a terra, una guardia del corpo di Napoleone
III lo colpì con un
pugnale, ferendolo. L'Imperatore ordinò: "Ne le tuez pas! (Non uccidetelo!)".
Il 7 maggio 1855 Pianori fu processato sbrigativamente dalla Corte di Assise
della Senna che non gli concesse l'interprete nonostante fosse chiarissimo che
l'imputato non conosceva bene la lingua e non era in grado di capire. Condannato a morte (la pena dei parricidi), Pianori
venne ghigliottinato il 14 maggio 1855 sulla Piazza della Roquette.