mercoledì 21 novembre 2018

01-04-C - Felice Orsini e l’attentato a Napoleone III

FELICE ORSINI E L’ATTENTATO A NAPOLEONE III


Erano le 19:15 di un tardo giovedì pomeriggio parigino datato 14 gennaio 1858. Monsieur Kim, netturbino, incaricato di spargere di sabbia la strada d’accesso al teatro dell’Opera di Parigi, aveva quasi terminato il suo lavoro. Gli mancava solo quel tratto davanti all’Opera, dove stazionavano due uomini che non avevano intenzione di togliersi dalla sua traiettoria. Ostinato e diligente Monsieur Kim riuscì a convincerli e finalmente a concludere la sua commissione. Ma, mentre stava ancora parlando, i due raggiunsero altri due sconosciuti appena arrivati sul marciapiede di rue Le Peletier in attesa che arrivasse l’imperatore accompagnato dalla sua consorte. La strada cominciò ad essere gremita, una moltitudine di donne e uomini acclamarono la carrozza blindata che una volta entrata in rue Le Peletier si indirizzò verso il teatro. Giunse quasi a destinazione, quando dalla folla uno dei quattro uomini lanciò qualcosa: una bomba, dopo pochi istanti, un altro si girò al compagno e gridò “Lancia la tua”, l’amico eseguì e fuggì in un’osteria da dove sentì il rimbombo del terzo scoppio. La paura e il terrore dilagò tra le persone presenti, la carrozza con l’imperatore e l’imperatrice Eugene rimase intatta, ma le vittime furono moltissime, i feriti cominciarono a fuggire in rue Rossini e a trovare soccorso nella farmacia Vautrin di rue Laffitte. Medicati alla svelta vennero riportati in strada per lasciare posto agli altri. Un certo Monsieur Dually vedendone uno in difficoltà, gli porse il proprio braccio e lo aiutò a raggiungere la stazione delle vetture che si trovava all’incrocio con la rue de Provance consentendo la fuga a quello che fu il principale indagato dell’attentato: Felice Orsini.

Parigi, 14 gennaio 1858


Felice Orsini

Orso Teobaldo Felice Orsini nacque il 10 dicembre 1819 a Meldola, (Emilia Romagna), quindi suddito papale. Figlio di Giacomo Andrea Orsini (figlio di un ex ufficiale napoleonico, carbonaro e spia della polizia pontificia nello stesso tempo) e Francesca Ricci in giovane età venne affidato alle cure dello zio paterno Orso Orsini, a Imola. All'età di sedici anni Felice si rese responsabile dell’uccisione del cuoco di famiglia a cui era stata affidata la sua sorveglianza, fuggì immediatamente dopo il fatto e venne accusato di omicidio.
Felice Orsini
Grazie all'amicizia dello zio con il vescovo di Imola Mastai Ferretti (futuro Papa Pio IX) i giudici, che inizialmente lo accusarono di aver sparato volontariamente al cuoco, credettero alla versione di un colpo di pistola partito accidentalmente, fu così che il reato venne derubricato in omicidio colposo con una condanna a sei mesi di carcere. Riuscì a evitare la detenzione entrando in seminario, presso il convento degli Agostiniani di Ravenna ma Felice Orsini poco incline alla vita in seminario abbandonò il convento per trasferirsi temporaneamente dal padre a Bologna.
Nell'agosto del 1843 si trovò coinvolto nei moti di Romagna, la scoperta della sua società segreta “Congiura Italiana dei Figli della Morte” gli costò l’ergastolo presso la fortezza pontificia di Civita Castellana, da cui uscì nel 1846 grazie all'amnistia concessa da Pio IX.
Nuovamente in libertà Felice Orsini si stabilì a Firenze, città d’origine della madre dove iniziò a dedicarsi alla cospirazione, nel 1848 partecipò alla Prima Guerra di Indipendenza e una volta tornato a Firenze, divenne avvocato e si sposò con Assunta Laurenzi.
Anticlericale e convinto seguace di Mazzini, Orsini continuò la sua attività rivoluzionaria nei territori dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana, nel 1849 prese parte all'esperienza della Repubblica Romana come deputato dell’Assemblea Costituente nel collegio della provincia di Forlì ma l’intervento dell’esercito francese a supporto del Papa costrinse Orsini a fuggire nuovamente.
Nel marzo 1850 si stabilì a Nizza, città al tempo compresa nel Regno di Sardegna, dove aprì un'attività di copertura, la ditta "Monti & Orsini", dedicata alla vendita della canapa prodotta e commerciata dallo zio Orso.
Pur avendo la possibilità di vivere una vita tranquilla, nel settembre del 1853 decise di guidare un tentativo insurrezionale in Lunigiana, tra Sarzana e Massa, ma l’azione fallì sul nascere. Orsini decise quindi di trasferirsi a Londra.
Nel 1854 preparò altri due tentativi insurrezionali, di stampo mazziniano, nuovamente in Lunigiana e in Valtellina, entrambi senza fortuna. Durante un suo viaggio clandestino nell'Impero asburgico come agente mazziniano, venne notato dalle autorità e arrestato in Ungheria, il 17 dicembre 1854, e rinchiuso nelle carceri austriache del Castello di San Giorgio a Mantova. Orsini fu protagonista di una rocambolesca fuga, nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1856, grazie all'aiuto della facoltosa Emma Siegmund, conosciuta anni prima a Nizza, che riuscì a corrompere i carcerieri e ad accompagnarlo in carrozza fino a Genova, da dove s’imbarcò per l’Inghilterra.
L’evasione da una delle fortezze del Quadrilatero[1], ritenute inespugnabili e simboli della potenza austriaca nel Lombardo-Veneto, venne subito ripresa dalla stampa di tutta Europa, anche per l’incidente occorso ai fuggitivi che si tramutò in occasione di scherno verso il proverbiale rigore asburgico. Infatti, l’immediata inchiesta ordinata personalmente dal generale Radetzky, oltre alle complicità interne ed esterne al carcere, appurò che la carrozza con a bordo Orsini e la Siegmund ruppe il timone nel cremonese, davanti al posto di polizia austriaco della fortezza di Pizzighettone. I due vennero soccorsi dai gendarmi che provvidero a sostituire il timone rotto con uno nuovo, preso dai magazzini della fortezza. Dell’episodio si venne a conoscenza per il fatto che la Siegmund, presentatasi con il falso cognome di O’Meara, lasciò una somma per pagare il timone, ma la cosa non era prevista dai regolamenti militari. Il responsabile della contabilità, quindi, inviò un dettagliato rapporto all’amministrazione di polizia per sapere in quale capitolo potesse imputare l’entrata, così svelando che la fuga di Orsini era stata ingenuamente favorita proprio dalla gendarmeria austriaca. In Inghilterra, Orsini si rese conto di essere ormai diventato celebre in quel Paese e decise di stabilirsi a Londra, accettando la generosa offerta di un editore per scrivere le sue memorie che pubblicò nei volumi Austrian Dungeons in Italy, del 1856, e Memoirs and Adventures dell’anno successivo, in cui Orsini non fece mai mancare l’impegno verso la causa dell’indipendenza italiana, nel suo libro Memorie e Avventure Orsini scrive: Giovani! A voi dedico la succinta narrazione dei fatti e rivolgimenti, dei quali, fin dal 1833, fui testimone e parte; perché conosciate la ragione dell’odio profondo, che deve nutrire il patriota italiano contro il papato, il dispotismo interno, e la dominazione straniera”.


Bomba Orsini
La preparazione dell’attentato

Nel 1857 sempre a Londra conobbe il chirurgo francese Simon François Bernard, un rivoluzionario fuggito in Inghilterra per scampare all'arresto per cospirazione nel suo paese. Orsini rimase affascinato dalle idee di Bernard, che gli parlò di un attentato a Napoleone III: con la sua eliminazione sarebbe venuta a mancare al Papa la decisiva protezione francese dello Stato Pontificio, che impediva la sua riunificazione all'Italia. Convinto dalle idee di Bernard, Orsini ruppe i legami con Giuseppe Mazzini e la sua strategia, da lui giudicata «perdente». Decise di proseguire la sua attività cospirativa cominciando ad organizzare l'assassinio di Napoleone III, con l'obiettivo ambizioso di innescare una rivoluzione in Francia che potesse propagarsi anche in Italia. Cause scatenanti dell'odio verso il monarca francese furono l'aver affossato la neonata Repubblica Romana restaurando il potere temporale dei papi riportando Pio IX sul trono, e il fatto che Napoleone III avesse quindi tradito gli ideali della Carboneria professati in gioventù negli anni 1830-1831.
Per l'occorrenza progettò e confezionò cinque bombe a mano con innesco al fulminato di mercurio, riempite di chiodi e pezzi di ferro per aumentarne il potere distruttivo. Si trattò di ordigni rudimentali ma incredibilmente efficaci, tanto da essere riutilizzati in altri attentati, diventando successivamente una delle armi più usate negli attentati politici e battezzate col nome di «Bombe all'Orsini».
Giunto a Parigi, Orsini reclutò altri tre congiurati: Giovanni Andrea Pieri, Carlo di Rudio e Antonio Gomez.


L’attentato

Parigi, la sera del 14 gennaio 1858, all’Opéra di rue Le Peletier era in programma il Guglielmo Tell di Gioachino Rossini.
Era una pungente sera d’inverno, un uomo si qualificò presso la polizia come Agente Speciale delle Tulileries e si fermò sulla porta del teatro, era Felice Orsini, che attendeva di mettere in atto il suo piano.
La strada cominciava ad essere animata: i giornali avevano annunciato che all’Opéra sarebbero stati presenti l’Imperatore Napoleone III e sua moglie, Eugenia de Montijo. Un agente riconobbe Pieri che era segnalato alle forze dell’ordine come clandestino. Lo arrestarono, addosso gli trovano una pistola, un coltello e una bomba. Nessuno si accorse di nulla, tutti attendevano la carrozza imperiale che, verso le 20,30 giunse quasi a destinazione. Una moltitudine di donne e uomini acclamavano la carrozza blindata, che una volta entrata in rue Le Peletier si diresse verso il teatro. La folla, ingrossata per salutare il loro passaggio, si accalcava trattenuta dai gendarmi. E di colpo un fragore. Poi un secondo, a breve distanza un terzo: erano bombe. Il primo ordigno venne scagliato da Gomez, seguirono quello Di Rudio e il terzo di Felici Orsini al grido di "Ricordati dell'Italia!".
Per gli scoppi i vetri delle case andarono in frantumi, le luci a gas che illuminavano il teatro si spensero. I cavalli del corteo reale, terrorizzati dalle esplosioni, fuggirono travolgendo la folla. La blindatura della carrozza riuscì a proteggere la vita dell’Imperatore e della sua consorte che ne uscirono illesi, ma a terra c’erano 12 morti e 156 feriti.
L'attentato a Napoleone III
Orsini e i suoi complici, favoriti dal panico scatenatosi e dal buio, riuscirono a fuggire, ma vennero tutti arrestati dalla polizia poche ore dopo, nei rispettivi alberghi, e tradotti provvisoriamente in una cella del carcere della Conciergerie. A tradire gli attentatori fu l'inesperienza e l'emotività del ventiseienne Antonio Gomez, che si rifugiò nella trattoria italiana Brogi, proprio di fronte al teatro, e che durante un controllo dei gendarmi mostrò tali segni di nervosismo (singhiozzi, frasi sconnesse) da non passare inosservato. Portato in commissariato, Gomez non resistette alle pressioni e confessò facendo arrestare tutta la banda nel giro di sole sette ore dall'attentato. Orsini, che dopo il lancio della terza bomba si era ferito ad una guancia, prima di entrare in una vicina farmacia per farsi medicare, aveva abbandonato sulla strada la quarta bomba e la sua pistola dentro un panno di seta. Quindi si recò bendato a casa sua e si era messo a dormire, venendo svegliato dalla polizia che lo arrestò per ultimo. Un altro congiurato, il medico francese Simon Bernard, riuscì a sfuggire alla cattura.


Il processo

Felice Orsini
Pur non avendo raggiunto l'obiettivo prefissato, l'attentato di Orsini suscitò impressione nell'opinione pubblica, offrendo all’Imperatore l'occasione per attuare un'azione repressiva contro l'opposizione politica violenta al suo regime.
Orsini e gli altri vennero portati di fronte ai giudici, il 25 e 26 febbraio, il processo fu breve e nulla valse la difesa dell’avvocato Jules Favre che cercò di non fa passare Orsini come criminale e assassino ma piuttosto un patriota che combatteva per liberare il suo paese dall'oppressione e dalla tirannide.
Fu un processo-spettacolo. L’imputato seguiva il processo in abiti di buon taglio che ne mettevano in risalto l’elegante figura, conquistando così i cuori di molte donne, compreso quello dell’Imperatrice che si spese presso il marito per salvare la vita di quell’italiano. Lo stesso Napoleone III miracolosamente scampato all’attentato, in cuor suo, avrebbe voluto graziare quell’idealista venuto dalla Romagna.
Fu quella che oggi chiameremmo “l’opinione pubblica” a condurlo alla ghigliottina. Il popolo di Francia volle una punizione esemplare per quello straniero che aveva minacciato la vita di un sovrano amato e che aveva seminato morte e terrore per le strade di Parigi. Napoleone III non poteva non tener conto dell’opinione dei sudditi. Insomma, Orsini compì un attentato in nome di un popolo che lo disconobbe e lo volle condannato a morte.
Orsini e Pieri, vennero ugualmente condannati a morte in quanto colpevoli di avere attentato alla vita dell'imperatore.
Felice Orsini di fronte ai giudici nel febbraio 1858.
Alle spalle seduti, da sinistra, i complici Carlo Di Rudio, Gomez e Pieri
Carlo Camillo Di Rudio, condannato a morte in un primo tempo, riuscì, tramite l'influenza del suocero inglese e grazie all'indulgenza dell'imperatore, a sfuggire alla ghigliottina, rimediando però, nel dicembre 1858, una condanna all'ergastolo nella colonia penale dell’Isola del Diavolo nella Caienna della Guyana francese. Ad Antonio Gomez il 26 febbraio 1858, gli fu risparmiata la vita perché una volta scoperto aveva reso piena confessione permettendo la cattura dei suoi compagni, e fu condannato ai lavori forzati a vita dalla Corte d’Assise di Parigi; scontò 29 anni nel carcere della Caienna; fu liberato nel 1887 a seguito della grazi a imperiale.
Dal carcere, prima di essere ghigliottinato il 14 marzo del 1858, Felice Orsini, senza chiedere la grazia, scrisse un'accorata e nobile lettera al sovrano francese. In essa, sconfessando l'assassinio politico, invitava Napoleone III a rendere all'Italia quell'indipendenza perduta nel 1849 per colpa dei Francesi. Nella lettera si legge: “Sta in poter Vostro fare l’Italia indipendente o di tenerla schiava dell’Austria e di ogni specie di stranieri. Gli Italiani vi chiedono che la Francia non permetta che la Prussia intervenga nelle future e forse imminenti lotte dell’Italia contro l’Austria. Io scongiuro Vostra Maestà di ridare all’Italia quella indipendenza che i suoi figli perdettero nel 1849, proprio per colpa dei Francesi. Rammenti Vostra Maestà che gli Italiani (e tra questi il mio padre stesso) accorsero a versare il sangue per Napoleone il Grande, dovunque a questi piacque di condurli; rammenti che sino a che l’Italia non sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella Vostra non saranno che una chimera. Vostra Maestà non respinga il voto supremo d’un patriota sulla via del patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini la seguiranno dovunque e per sempre”.
Napoleone III fu colpito da questa lettera e ne autorizzò la pubblicazione e, forse attratto dalla possibilità di passare alla storia come il liberatore della nazione italiana, ne autorizzò la pubblicazione e se ne servì per creare intorno alla guerra contro l’Austria un largo consenso nazionale. La stampa italiana presentò Felice Orsini non più come un terrorista, ma come un eroe. Cavour, vista la popolarità che aveva raggiunto la missiva, colse allora l'occasione per aumentare la sua pressione politica sulla Francia e convinse Napoleone III, descrivendo l'Italia come una polveriera pronta ad esplodere ed a mettere sottosopra l'equilibrio europeo, affinché aiutasse il Piemonte e non lasciasse nelle pericolose mani dei rivoluzionari l’iniziativa di unificare l’Italia.
Orsini fu ghigliottinato alle sette del mattino del 13 marzo a Parigi nella piazza della Roquette, assieme all'amico Pieri.
Quando arrivò il momento dell’esecuzione, Orsini si avviò con passo deciso al patibolo e, una volta sotto la ghigliottina, urlò: ”Viva l’Italia, Viva la Francia!
La decapitazione di Orsini
Simon François Bernard
Nel suo testamento aveva chiesto di essere seppellito a Londra, ma il suo corpo finì in una fossa comune a Parigi. Di Rudio evase e Gomez fu graziato, il primo emigrò negli Stati Uniti e del secondo non si seppe più nulla.
Napoleone III romperà in seguito gli indugi ed inviterà Cavour a recarsi segretamente in luglio alle terme di Plombieres, dove si getteranno le basi per la tanto auspicata alleanza franco-piemontese.
Orsini venne descritto come anarchico, anche se propriamente era un mazziniano eretico, come Pisacane.
L’attentato a Napoleone III fu di fondamentale importanza nello sviluppo successivo delle azioni rivoluzionarie, poiché, prendendo di mira un influente personaggio pubblico, lo rendeva un simbolo, l’oggettivazione di un “male” contro cui lottare; di conseguenza l’attentato perdeva la sua utilità contingente, particolare, diventando un’azione esemplare di un’avanguardia che potesse fungere da modello per le masse.


Simon François Bernard

Simon François Bernard, Carcassonne, 28 gennaio 1817 – Londra, 25 novembre 1862, è stato un medico e rivoluzionario francese naturalizzato inglese.
Nato in una famiglia della piccola borghesia, si laureò in medicina a Montpellier. Nel 1837 si arruolò come medico militare nella marina francese e trascorse molto tempo in Sudamerica.
Bernard cominciò a interessarsi, già durante gli studi universitari, al pensiero del socialista utopico Charles Fourier. Tornato in Francia nel 1842, si dedicò alla politica e al giornalismo, e nel 1846 divenne coredattore capo, assieme a Pierre Lefranc, de L'Indépendant des Pyrénées-Orientales. Durante la Rivoluzione francese del 1848 si espresse a favore della rivoluzione più radicale e, per i richiami al Club dei Giacobini, ricevette il soprannome di "clubiste". Nel 1849 Bernard emigrò in Belgio; nel 1851 si trasferì in Inghilterra dove frequentò gruppi radicali e rivoluzionari. Il 15 gennaio 1858 fu arrestato per aver fornito a Felice Orsini le bombe utilizzate per l'attentato del precedente 14 gennaio contro Napoleone III. Processato da una corte inglese fu assolto. Bernard sfruttò la notorietà derivata dal processo per divulgare le sue idee in una serie di conferenze. Il 25 aprile 1862 fu rinchiuso nel manicomio di Wandsworth dove morì nel successivo mese di novembre.


Antonio Gomez

Antonio Gomez (Napoli, 1829 – Napoli, post 1887) è stato volontario nella prima guerra di indipendenza del 1848, emigrò in Francia, dove si arruolò nella Legione straniera francese prestando servizio in Algeria dal maggio 1853 al giugno del 1855. Cameriere su un piroscafo, il 7 dicembre 1855, Gomez fu condannato a Marsiglia a sei mesi di carcere per aver perso un baule affidatogli; scontata la pena nel 1856 emigrò in Inghilterra a Birmingham e poi a Londra come garzone nel Café Chantant di Leicester Square.
In Inghilterra aderì al movimento mazziniano.
Il 14 gennaio 1858, posizionato di fronte all'Opéra national de Paris. Gomez fu il primo a lanciare la bomba contro il corteo imperiale, immediatamente seguito nel gesto da Carlo Di Rudio e Felice Orsini. Fu arrestato poco dopo al ristorante Brogi, dove si era rifugiato.
Giovanni Andrea Pieri
Il 26 febbraio 1858 fu condannato dalla corte d'Assise di Parigi per circostanze attenuanti ai lavori forzati a vita. Scontò 29 anni nel carcere della Caienna e liberato nel marzo 1887, a seguito della grazia, si ritirò a Napoli ove morì, in estrema miseria, in età avanzata.


Giovanni Andrea Pieri

Giovanni Andrea Pieri (Santo Stefano di Moriano -una frazione di Lucca- 1808 – Parigi, 13 marzo 1858), in seguito ad un furto di cui fu accusato, emigrò giovane in Francia dove prestò servizio nella Legione straniera francese. Si stabilì a Parigi e mise su famiglia, lavorando come cappellaio. Qui entrò in contatto con la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini e militò nella “Unione degli operai italiani”, organizzata nella capitale francese sempre dai fuoriusciti mazziniani.
Nel 1848 prese parte alla rivoluzione parigina e alla prima guerra di indipendenza in Italia come ufficiale dei bersaglieri, dai quali fu cacciato nel 1849 con l'accusa di concussione. Tornato in Francia, il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 mise in atto delle epurazioni che lo espulsero dal paese dopo una condanna per truffa. Ormai ricercato dalle polizie di mezza Europa riparò a Londra, dove conobbe Felice Orsini. Nella capitale inglese il Pieri visse dando lezioni di lingue.
Il 14 gennaio 1858, a Parigi, catturato pochi istanti prima dell'attentato a Napoleone III, l'ispettore di polizia Hérbert gli trovò addosso una bomba dirompente, una rivoltella e un passaporto tedesco in cui il suo nome era alterato in Pierey. L'arresto del Pieri impedì il lancio di un'altra bomba, che sarebbe stata l'ultima, ossia la quarta.
Processato il 25 febbraio con l'accusa di essere stato complice nell'attentato, fu riconosciuto colpevole, condannato a morte per parricidio e condotto sul luogo dell'esecuzione in camicia, a piedi nudi, con il capo coperto da un velo nero. Venne esposto sul patibolo, mentre un usciere diede lettura della sentenza e venne giustiziato subito dopo, così sentenziò il giudice. La mattina del 13 marzo, nella piazza antistante la prigione della Roquette, di fronte ad un pubblico numeroso, il Pieri fu ghigliottinato, e poco dopo la stessa sorte capitò a Felice Orsini.


Carlo Di Rudio

Il tenente Carlo di Rudio nell'esercito statunitense
Il conte Carlo Camillo Di Rudio (Belluno, 26 agosto 1832 – Pasadena, 1º novembre 1910) fu avviato, appena quindicenne, alla carriera militare presso il Collegio Militare di San Luca di Milano, l'odierna Scuola militare "Teuliè". Nel 1848 fu coinvolto nei moti lombardi delle cinque giornate di Milano e uccise un soldato austriaco croato responsabile di uno stupro e del conseguente assassinio di due donne. Trasferito a Graz, ritornò clandestinamente a Belluno. Abbracciando gli ideali mazziniani, accorse generosamente alla difesa di Venezia.
Sfuggito alla polizia austriaca, Carlo di Rudio riparò a Roma in difesa della giovane Repubblica. Qui conobbe Garibaldi, Mazzini, i fratelli Emilio e Enrico Dandolo, Aurelio Saffi, Goffredo Mameli e Nino Bixio. Con Venezia occupata dall'esercito austriaco e Garibaldi esule negli Stati Uniti d'America a New York, anche Di Rudio, ormai perennemente braccato dalla giustizia di Vienna, riparò in Francia, ove nel dicembre del 1851, a Parigi, si schierò coi Giacobini che si opponevano al colpo di stato di Napoleone III di Francia. Nello stesso anno partecipò all'insurrezione mazziniana del Cadore.
Nel 1857 si trasferì a Genova, cercando un imbarco per l'America del Nord. Naufrago, fu costretto a riparare in Spagna, in Francia, Svizzera, Piemonte e, infine, nel Regno Unito. Qui per un certo periodo il patriota dall'animo irrequieto ebbe una vita tranquilla, dedita tutta alla famiglia seppur continuamente angustiata da problemi economici. Per sbarcare il lunario, Di Rudio lavorò per qualche tempo come giardiniere al servizio di Luigi Pinciani, un noto filantropo amico di Victor Hugo e costantemente in contatto con Giuseppe Mazzini.
Lo spirito rivoluzionario non tardò ad avere il sopravvento sulla quotidianità di una vita anonima. Così, quando si presentò la prima occasione per entrare nuovamente in azione, Di Rudio si trovò subito pronto.
Partecipò al piano progettato da Felice Orsini per assassinare l'imperatore Napoleone III. Fallito l'attentato, Di Rudio fu catturato la sera stessa e processato nel mese di febbraio con tutti gli altri congiurati italiani. Di Rudio, condannato a morte in un primo tempo, riuscì tramite l'abilità del suo avvocato, l'influenza del suocero inglese e grazie all'indulgenza dell'imperatore a sfuggire alla ghigliottina, rimediando però, nel dicembre 1858, una condanna all'ergastolo nella colonia penale della malfamata Isola del Diavolo nella Caienna della Guyana francese.
Giunto alla Caienna meditò costantemente su come fuggire al più presto da quell'inferno tropicale. Considerato un sovversivo politico anche dai compagni di reclusione, dovette rispondere con coraggio e forza fisica alle continue provocazioni degli ergastolani francesi.
Nonostante tutto Di Rudio riuscì a trovare degli alleati disposti a partecipare al suo tentativo di fuga. Fallito un primo tentativo, dopo mesi e mesi di ulteriori preparativi segreti, la fuga riuscì nel 1859, suscitando un clamore eccezionale in tutte le terre coloniali francesi.
I fuggiaschi raggiunsero, dopo innumerevoli peripezie, il territorio della colonia del Regno Unito Guyana, trovandovi funzionari ben lieti di nasconderli alle pressanti richieste francesi (molti deportati infatti erano condannati politici, invisi alla monarchia francese ma non alla corona del Regno Unto). Da qui si imbarcò per il Regno Unito. Era il 1860.
Nel Regno Unito, costantemente afflitto da problemi economici, il giovane Di Rudio avrebbe voluto partecipare ai moti del Risorgimento italiano ma, braccato dalla polizia francese e da quella austriaca, privo di un futuro nel Regno Unito, consigliato dagli amici più fidati e con in tasca una raccomandazione di Giuseppe Mazzini, preferì emigrare con la famiglia negli Stati Uniti d'America.
Sbarcato a New York, anglicizzò il suo nome in Charles DeRudio e nel 1861 trovò presto impiego nell'esercito federale statunitense impegnato nella guerra civile. Come semplice volontario, sostituto di un giovane ricco statunitense, fu arruolato nel 79º Volontari Highlanders di New York. Si mise ben presto in luce presso i suoi superiori, a tal punto che meritò i gradi di sottotenente di una compagnia del 2º USCT, composta essenzialmente da soldati di origine afroamericana, impegnata con compiti di polizia militare in Florida.
Terminata la guerra nel 1865 e ancora una volta raccomandato da influenti amici repubblicani (i soli a conoscere il suo vero passato), Carlo Di Rudio fu incorporato nei ranghi dell'esercito statunitense e nel 1869 venne assegnato al 7th Cavalry Regiment degli USA, alle dipendenze del personaggio più controverso della storia statunitense, il tenente colonnello George Armstrong Custer.
Il 25 giugno 1876 Carlo Di Rudio, assegnato alle squadre del capitano Marcus Reno, partecipò alla celebre Battaglia del Little Bighorn, che vide impegnata la cavalleria statunitense nella campagna contro le tribù dei Sioux, Hunkpapa, Oglala al comando di Toro Seduto e dei Cheyenne capeggiate da Cavallo Pazzo. Il tenente Di Rudio, che fu uno dei pochi superstiti del 7th Cavalry Regiment, nella battaglia eseguì diligentemente gli ordini che lo vedevano impegnato in una colonna parallela che doveva attaccare il campo dei nativi, ma si ritrovò ben presto circondato da migliaia di nativi pronti a massacrare chiunque incontrassero. Come uno dei pochi superstiti della battaglia, Di Rudio finì sulle prime pagine di tutti i giornali statunitensi, tra polemiche, insinuazioni, inchieste, testimonianze in aula. Il suo valore e il suo corretto comportamento militare alla fine furono tuttavia riconosciuti. Trasferito ad altri incarichi, fu assegnato nelle terre del Nordovest. Qui Carlo Di Rudio, ormai capitano, partecipò tra luglio e ottobre 1877 alla guerra dei Nasi Forati che si concluse con l'epico inseguimento a Capo Giuseppe, il nativo Nez Percé, che era riuscito a tenere in scacco l'esercito americano con i suoi pochi guerrieri e la sua disperata fuga verso il Canada.
Giunto in Texas con nuovi incarichi logistici, l'ormai anziano soldato italiano riuscì a conoscere anche il grande Geronimo degli Apache Chirichaua e nella ormai tranquilla guarnigione di frontiera, nel 1896, a 64 anni d'età, egli raggiunse la tanto agognata pensione. Ritiratosi a San Francisco, nel 1904 gli fu riconosciuto il grado di maggiore. Carlo Di Rudio morì il 1º novembre del 1910 a Pasadena (California) assistito dalle tre figlie Italia, Roma e America, in un letto sovrastato dai ritratti dei suoi tanto amati compagni d'avventura: Pier Fortunato Calvi e Giuseppe Mazzini.


Il caso di Francesco Crispi

Di Rudio fu anche al centro di un mistero che non è ancora stato completamente svelato e riguarda i nomi di tutti i componenti del famoso attentato a Napoleone III. Difatti allo storico Paolo Mastri, che gli scrisse nel 1908 poco prima della morte chiedendogli precisazioni sull'attentato dell'Orsini del 1858, Di Rudio rispose di aver visto personalmente Felice Orsini consegnare una delle sue bombe nientemeno che a Francesco Crispi, ex capo del Governo italiano. Inoltre Di Rudio sostenne che sarebbe stato proprio Crispi e non Orsini a lanciare la terza ed ultima bomba contro il corteo imperiale (le altre due erano state lanciate, una dallo stesso Di Rudio e l'altra da Gomez). L'esplosiva rivelazione scatenò una furiosa polemica internazionale, che dall'Italia fu ripresa anche dai giornali francesi. I parenti di Crispi, nel frattempo morto, la bollerono come fantasie senili; altri lo difesero.
Gli storici odierni sembrano non dar peso storico alle affermazioni di Di Rudio in quanto Crispi era sì effettivamente a Parigi il giorno dell'attentato, dove venne arrestato e quindi espulso dalla Francia, ma la descrizione fisica che ne dà Di Rudio, evocandolo con i grossi baffi dell'età matura, stride con il fatto che Crispi portava allora una folta barba. Ma soprattutto, visto che a quell'epoca Crispi era ancora politicamente legato a Mazzini, il maggior nemico di Orsini, che lascerà solo due anni dopo per unirsi a Garibaldi nella spedizione in Sicilia, è poco probabile ipotizzare una partecipazione all'attentato del futuro presidente del Consiglio.



[1] Il Quadrilatero fu, tra il 1815 e il 1866, un sistema difensivo costruito dall'Impero austriaco nel Lombardo-Veneto, che si dispiegava su un quadrilatero i cui vertici erano le fortezze di Peschiera del Garda, Mantova, Legnago e Verona, comprese fra il Mincio, il Po, l'Adige e dal 1850 circa la ferrovia Milano-Venezia, tramite la quale erano garantiti i rifornimenti. Difficilmente aggirabile, ostacolava i movimenti di truppe nemiche nella pianura padana.