Erano le 19:15 di un tardo giovedì pomeriggio parigino datato 14 gennaio
1858. Monsieur Kim, netturbino, incaricato di spargere di sabbia la strada
d’accesso al teatro dell’Opera di Parigi, aveva quasi terminato il suo lavoro.
Gli mancava solo quel tratto davanti all’Opera, dove stazionavano due uomini
che non avevano intenzione di togliersi dalla sua traiettoria. Ostinato e
diligente Monsieur Kim riuscì a convincerli e finalmente a concludere la sua
commissione. Ma, mentre stava ancora parlando, i due raggiunsero altri due
sconosciuti appena arrivati sul marciapiede di rue Le Peletier in attesa che
arrivasse l’imperatore
accompagnato dalla sua consorte. La strada cominciò ad essere gremita, una
moltitudine di donne e uomini acclamarono la carrozza blindata che una volta
entrata in rue Le Peletier si indirizzò verso il teatro. Giunse quasi a
destinazione, quando dalla folla uno dei quattro uomini lanciò qualcosa: una
bomba, dopo pochi istanti, un altro si girò al compagno e gridò “Lancia la
tua”, l’amico eseguì e fuggì in un’osteria da dove sentì il rimbombo del
terzo scoppio. La paura e il terrore dilagò tra le persone presenti, la
carrozza con l’imperatore e l’imperatrice Eugene rimase intatta, ma le vittime
furono moltissime, i feriti cominciarono a fuggire in rue Rossini e a trovare
soccorso nella farmacia Vautrin di rue Laffitte. Medicati alla svelta vennero
riportati in strada per lasciare posto agli altri. Un certo Monsieur Dually
vedendone uno in difficoltà, gli porse il proprio braccio e lo aiutò a
raggiungere la stazione delle vetture che si trovava all’incrocio con la rue de
Provance consentendo la fuga a quello che fu il principale indagato
dell’attentato: Felice Orsini.
Parigi, 14 gennaio 1858 |
Felice Orsini
Orso Teobaldo Felice Orsini
nacque il 10 dicembre 1819 a Meldola, (Emilia Romagna), quindi suddito papale.
Figlio di Giacomo Andrea Orsini (figlio di un ex ufficiale napoleonico,
carbonaro e spia della polizia pontificia nello stesso tempo) e Francesca Ricci
in giovane età venne affidato alle cure dello zio paterno Orso Orsini, a Imola.
All'età di sedici anni Felice si rese responsabile dell’uccisione del cuoco di
famiglia a cui era stata affidata la sua sorveglianza, fuggì immediatamente
dopo il fatto e venne accusato di omicidio.
Felice Orsini |
Grazie all'amicizia dello zio
con il vescovo di Imola Mastai Ferretti (futuro Papa Pio IX) i giudici,
che inizialmente lo accusarono di aver sparato volontariamente al cuoco,
credettero alla versione di un colpo di pistola partito accidentalmente, fu
così che il reato venne derubricato in omicidio colposo con una condanna a sei
mesi di carcere. Riuscì a evitare la detenzione entrando in seminario, presso
il convento degli Agostiniani di Ravenna ma Felice Orsini poco incline alla
vita in seminario abbandonò il convento per trasferirsi temporaneamente dal
padre a Bologna.
Nell'agosto del 1843 si trovò
coinvolto nei moti di Romagna, la scoperta della sua società segreta “Congiura
Italiana dei Figli della Morte” gli costò l’ergastolo presso la fortezza
pontificia di Civita Castellana, da cui uscì nel 1846 grazie all'amnistia
concessa da Pio IX.
Nuovamente in libertà Felice
Orsini si stabilì a Firenze, città d’origine della madre dove iniziò a
dedicarsi alla cospirazione, nel 1848 partecipò alla Prima Guerra di
Indipendenza e una volta tornato a Firenze, divenne avvocato e si sposò con
Assunta Laurenzi.
Anticlericale e convinto
seguace di Mazzini, Orsini continuò la sua attività rivoluzionaria nei
territori dello Stato Pontificio e del Granducato di Toscana, nel 1849 prese
parte all'esperienza della Repubblica Romana come deputato dell’Assemblea
Costituente nel collegio della provincia di Forlì ma l’intervento dell’esercito
francese a supporto del Papa costrinse Orsini a fuggire nuovamente.
Nel marzo 1850 si stabilì a
Nizza, città al tempo compresa nel Regno di Sardegna, dove aprì un'attività di
copertura, la ditta "Monti & Orsini", dedicata alla vendita della
canapa prodotta e commerciata dallo zio Orso.
Pur avendo la possibilità di
vivere una vita tranquilla, nel settembre del 1853 decise di guidare un
tentativo insurrezionale in Lunigiana, tra Sarzana e Massa, ma l’azione fallì
sul nascere. Orsini decise quindi di trasferirsi a Londra.
Nel 1854 preparò altri due
tentativi insurrezionali, di stampo mazziniano, nuovamente in Lunigiana e in
Valtellina, entrambi senza fortuna. Durante un suo viaggio clandestino
nell'Impero asburgico come agente mazziniano, venne notato dalle autorità e
arrestato in Ungheria, il 17 dicembre 1854, e rinchiuso nelle carceri austriache
del Castello di San Giorgio a Mantova. Orsini fu protagonista di una
rocambolesca fuga, nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1856, grazie all'aiuto
della facoltosa Emma Siegmund, conosciuta anni prima a Nizza, che riuscì a
corrompere i carcerieri e ad accompagnarlo in carrozza fino a Genova, da dove
s’imbarcò per l’Inghilterra.
L’evasione da una delle
fortezze del Quadrilatero[1], ritenute
inespugnabili e simboli della potenza austriaca nel Lombardo-Veneto, venne
subito ripresa dalla stampa di tutta Europa, anche per l’incidente occorso ai
fuggitivi che si tramutò in occasione di scherno verso il proverbiale rigore
asburgico. Infatti, l’immediata inchiesta ordinata personalmente dal generale
Radetzky, oltre alle complicità interne ed esterne al carcere, appurò che la
carrozza con a bordo Orsini e la Siegmund ruppe il timone nel cremonese,
davanti al posto di polizia austriaco della fortezza di Pizzighettone. I due
vennero soccorsi dai gendarmi che provvidero a sostituire il timone rotto con
uno nuovo, preso dai magazzini della fortezza. Dell’episodio si venne a
conoscenza per il fatto che la Siegmund, presentatasi con il falso cognome di
O’Meara, lasciò una somma per pagare il timone, ma la cosa non era prevista dai
regolamenti militari. Il responsabile della contabilità, quindi, inviò un
dettagliato rapporto all’amministrazione di polizia per sapere in quale
capitolo potesse imputare l’entrata, così svelando che la fuga di Orsini era
stata ingenuamente favorita proprio dalla gendarmeria austriaca. In Inghilterra,
Orsini si rese conto di essere ormai diventato celebre in quel Paese e decise
di stabilirsi a Londra, accettando la generosa offerta di un editore per
scrivere le sue memorie che pubblicò nei volumi Austrian Dungeons in Italy, del 1856, e Memoirs and Adventures dell’anno successivo, in cui Orsini non fece
mai mancare l’impegno verso la causa dell’indipendenza italiana, nel suo libro Memorie e Avventure Orsini scrive: “Giovani! A voi dedico la succinta narrazione dei fatti e
rivolgimenti, dei quali, fin dal 1833, fui testimone e parte; perché conosciate
la ragione dell’odio profondo, che deve nutrire il patriota italiano contro il
papato, il dispotismo interno, e la dominazione straniera”.
Bomba Orsini |
La
preparazione dell’attentato
Nel 1857 sempre a Londra conobbe
il chirurgo francese Simon François Bernard, un rivoluzionario fuggito in
Inghilterra per scampare all'arresto per cospirazione nel suo paese. Orsini
rimase affascinato dalle idee di Bernard, che gli parlò di un attentato a Napoleone
III: con la sua eliminazione sarebbe venuta a
mancare al Papa la decisiva protezione francese dello Stato Pontificio, che
impediva la sua riunificazione all'Italia. Convinto dalle idee di Bernard,
Orsini ruppe i legami con Giuseppe Mazzini e la sua strategia, da lui giudicata
«perdente». Decise di proseguire la sua attività cospirativa cominciando ad
organizzare l'assassinio di Napoleone
III, con l'obiettivo ambizioso di
innescare una rivoluzione in Francia che potesse propagarsi anche in Italia.
Cause scatenanti dell'odio verso il monarca francese furono l'aver affossato la
neonata Repubblica Romana restaurando il potere temporale dei papi riportando Pio
IX sul trono, e
il fatto che Napoleone
III avesse quindi tradito gli ideali della
Carboneria professati in gioventù negli anni 1830-1831.
Per l'occorrenza progettò e
confezionò cinque bombe a mano con innesco al fulminato di mercurio, riempite
di chiodi e pezzi di ferro per aumentarne il potere distruttivo. Si trattò di
ordigni rudimentali ma incredibilmente efficaci, tanto da essere riutilizzati
in altri attentati, diventando successivamente una delle armi più usate negli
attentati politici e battezzate col nome di «Bombe all'Orsini».
Giunto a Parigi, Orsini
reclutò altri tre congiurati: Giovanni Andrea Pieri, Carlo di Rudio e Antonio
Gomez.
L’attentato
Parigi, la
sera del 14 gennaio 1858, all’Opéra
di rue Le Peletier era
in programma il Guglielmo Tell di Gioachino Rossini.
Era una
pungente sera d’inverno, un uomo si qualificò presso la polizia come Agente
Speciale delle Tulileries e si fermò sulla porta del teatro, era Felice Orsini, che attendeva di mettere
in atto il suo piano.
La strada
cominciava ad essere animata: i giornali avevano annunciato che all’Opéra sarebbero stati
presenti l’Imperatore Napoleone
III e sua moglie,
Eugenia de Montijo. Un agente riconobbe Pieri che era segnalato alle forze
dell’ordine come clandestino. Lo arrestarono, addosso gli trovano una pistola,
un coltello e una bomba. Nessuno si accorse di nulla, tutti attendevano la
carrozza imperiale che, verso le 20,30 giunse quasi a destinazione. Una
moltitudine di donne e uomini acclamavano la carrozza blindata, che una volta
entrata in rue Le Peletier
si diresse verso il teatro. La folla, ingrossata per salutare il loro
passaggio, si accalcava trattenuta dai gendarmi. E di colpo un fragore. Poi un
secondo, a breve distanza un terzo: erano bombe. Il primo ordigno venne
scagliato da Gomez, seguirono quello Di Rudio e il terzo di Felici Orsini al
grido di "Ricordati dell'Italia!".
Per gli
scoppi i vetri delle case andarono in frantumi, le luci a gas che illuminavano
il teatro si spensero. I cavalli del corteo reale, terrorizzati dalle
esplosioni, fuggirono travolgendo la folla. La blindatura della carrozza riuscì
a proteggere la vita dell’Imperatore e della sua consorte che ne uscirono illesi, ma a terra c’erano 12 morti e 156
feriti.
L'attentato a Napoleone III |
Orsini e i
suoi complici, favoriti dal panico scatenatosi e dal buio, riuscirono a
fuggire, ma vennero tutti arrestati dalla polizia poche ore dopo, nei
rispettivi alberghi, e tradotti provvisoriamente in una cella del carcere
della Conciergerie. A
tradire gli attentatori fu l'inesperienza e l'emotività del ventiseienne
Antonio Gomez, che si rifugiò nella trattoria italiana Brogi, proprio di fronte
al teatro, e che durante un controllo dei gendarmi mostrò tali segni di
nervosismo (singhiozzi, frasi sconnesse) da non passare inosservato. Portato in
commissariato, Gomez non resistette alle pressioni e confessò facendo arrestare
tutta la banda nel giro di sole sette ore dall'attentato. Orsini, che dopo il
lancio della terza bomba si era ferito ad una guancia, prima di entrare in una
vicina farmacia per farsi medicare, aveva abbandonato sulla strada la quarta
bomba e la sua pistola dentro un panno di seta. Quindi si recò bendato a casa
sua e si era messo a dormire, venendo svegliato dalla polizia che lo arrestò
per ultimo. Un altro congiurato, il medico francese Simon Bernard, riuscì a
sfuggire alla cattura.
Il processo
Felice Orsini |
Pur non
avendo raggiunto l'obiettivo prefissato, l'attentato di Orsini suscitò
impressione nell'opinione pubblica, offrendo all’Imperatore l'occasione per attuare un'azione
repressiva contro l'opposizione politica violenta al suo regime.
Orsini e
gli altri vennero portati di fronte ai giudici, il 25 e 26 febbraio, il
processo fu breve e nulla valse la difesa dell’avvocato Jules Favre che cercò
di non fa passare Orsini come criminale e assassino ma piuttosto un patriota
che combatteva per liberare il suo paese dall'oppressione e dalla tirannide.
Fu un
processo-spettacolo. L’imputato seguiva il processo in abiti di buon taglio che
ne mettevano in risalto l’elegante figura, conquistando così i cuori di molte
donne, compreso quello dell’Imperatrice che si spese presso il marito per
salvare la vita di quell’italiano. Lo stesso Napoleone
III miracolosamente scampato all’attentato, in cuor suo, avrebbe voluto graziare
quell’idealista venuto dalla Romagna.
Fu quella
che oggi chiameremmo “l’opinione pubblica” a condurlo alla ghigliottina. Il
popolo di Francia volle una punizione esemplare per quello straniero che aveva
minacciato la vita di un sovrano amato e che aveva seminato morte e terrore per
le strade di Parigi. Napoleone
III non poteva non
tener conto dell’opinione dei sudditi. Insomma, Orsini compì un attentato in
nome di un popolo che lo disconobbe e lo volle condannato a morte.
Orsini e
Pieri, vennero ugualmente condannati a morte in quanto colpevoli di avere
attentato alla vita dell'imperatore.
Felice Orsini di fronte ai giudici nel febbraio 1858. Alle spalle seduti, da sinistra, i complici Carlo Di Rudio, Gomez e Pieri |
Carlo
Camillo Di Rudio, condannato a morte in un primo tempo, riuscì, tramite
l'influenza del suocero inglese e grazie all'indulgenza dell'imperatore, a sfuggire alla
ghigliottina, rimediando però, nel dicembre 1858, una condanna all'ergastolo
nella colonia penale dell’Isola del Diavolo nella Caienna della Guyana
francese. Ad Antonio Gomez il 26 febbraio 1858, gli fu risparmiata la vita
perché una volta scoperto aveva reso piena confessione permettendo la cattura
dei suoi compagni, e fu condannato ai lavori forzati a vita dalla Corte
d’Assise di Parigi; scontò 29 anni nel carcere della Caienna; fu liberato nel
1887 a seguito della grazi a imperiale.
Dal
carcere, prima di essere ghigliottinato il 14 marzo del 1858, Felice Orsini,
senza chiedere la grazia, scrisse un'accorata e nobile lettera al sovrano
francese. In essa, sconfessando l'assassinio politico, invitava Napoleone
III a rendere all'Italia
quell'indipendenza perduta nel 1849 per colpa dei Francesi. Nella lettera si
legge: “Sta in poter Vostro fare l’Italia indipendente o di tenerla schiava
dell’Austria e di ogni specie di stranieri. Gli Italiani vi chiedono che la
Francia non permetta che la Prussia intervenga nelle future e forse imminenti
lotte dell’Italia contro l’Austria. Io scongiuro Vostra Maestà di ridare
all’Italia quella indipendenza che i suoi figli perdettero nel 1849, proprio
per colpa dei Francesi. Rammenti Vostra Maestà che gli Italiani (e tra questi
il mio padre stesso) accorsero a versare il sangue per Napoleone il Grande,
dovunque a questi piacque di condurli; rammenti che sino a che l’Italia non
sarà indipendente, la tranquillità dell’Europa e quella Vostra non saranno che
una chimera. Vostra Maestà non respinga il voto supremo d’un patriota sulla via
del patibolo: liberi la mia patria e le benedizioni di 25 milioni di cittadini
la seguiranno dovunque e per sempre”.
Napoleone
III fu colpito da questa lettera e ne autorizzò la pubblicazione e, forse attratto
dalla possibilità di passare alla storia come il liberatore della nazione
italiana, ne autorizzò la pubblicazione e se ne servì per creare intorno alla guerra
contro l’Austria un largo consenso nazionale. La stampa italiana presentò
Felice Orsini non più come un terrorista, ma come un eroe. Cavour, vista la
popolarità che aveva raggiunto la missiva, colse allora l'occasione per
aumentare la sua pressione politica sulla Francia e convinse Napoleone
III, descrivendo l'Italia come
una polveriera pronta ad esplodere ed a mettere sottosopra l'equilibrio
europeo, affinché aiutasse il Piemonte e non lasciasse nelle pericolose mani
dei rivoluzionari l’iniziativa di unificare l’Italia.
Orsini fu
ghigliottinato alle sette del mattino del 13 marzo a Parigi nella piazza
della Roquette,
assieme all'amico Pieri.
Quando
arrivò il momento dell’esecuzione, Orsini si avviò con passo deciso al patibolo
e, una volta sotto la ghigliottina, urlò: ”Viva l’Italia, Viva la Francia!”
La decapitazione di Orsini |
Simon François Bernard |
Nel suo
testamento aveva chiesto di essere seppellito a Londra, ma il suo corpo finì in
una fossa comune a Parigi. Di Rudio evase e Gomez fu graziato, il primo emigrò
negli Stati Uniti e del secondo non si seppe più nulla.
Napoleone
III romperà in seguito gli indugi ed inviterà Cavour a recarsi segretamente in
luglio alle terme di Plombieres, dove si getteranno le basi per la tanto
auspicata alleanza franco-piemontese.
Orsini
venne descritto come anarchico, anche se propriamente era un mazziniano
eretico, come Pisacane.
L’attentato
a Napoleone
III fu di fondamentale
importanza nello sviluppo successivo delle azioni rivoluzionarie, poiché,
prendendo di mira un influente personaggio pubblico, lo rendeva un simbolo,
l’oggettivazione di un “male” contro cui lottare; di conseguenza l’attentato
perdeva la sua utilità contingente, particolare, diventando un’azione esemplare
di un’avanguardia che potesse fungere da modello per le masse.
Simon François Bernard
Simon François Bernard,
Carcassonne, 28 gennaio 1817 – Londra, 25 novembre 1862, è stato un medico e
rivoluzionario francese naturalizzato inglese.
Nato in una famiglia della
piccola borghesia, si laureò in medicina a Montpellier. Nel 1837 si arruolò
come medico militare nella marina francese e trascorse molto tempo in
Sudamerica.
Bernard cominciò a
interessarsi, già durante gli studi universitari, al pensiero del socialista
utopico Charles Fourier. Tornato in Francia nel 1842, si dedicò alla politica e
al giornalismo, e nel 1846 divenne coredattore capo, assieme a Pierre Lefranc,
de L'Indépendant des Pyrénées-Orientales. Durante la Rivoluzione
francese del 1848 si espresse a favore della rivoluzione più radicale e,
per i richiami al Club dei Giacobini, ricevette il soprannome di
"clubiste". Nel 1849 Bernard emigrò in Belgio; nel 1851 si trasferì
in Inghilterra dove frequentò gruppi radicali e rivoluzionari. Il 15 gennaio 1858
fu arrestato per aver fornito a Felice Orsini le bombe utilizzate per
l'attentato del precedente 14 gennaio contro Napoleone
III. Processato da una corte inglese fu assolto.
Bernard sfruttò la notorietà derivata dal processo per divulgare le sue idee in
una serie di conferenze. Il 25 aprile 1862 fu rinchiuso nel manicomio di
Wandsworth dove morì nel successivo mese di novembre.
Antonio Gomez
Antonio Gomez (Napoli, 1829 –
Napoli, post 1887) è stato volontario nella prima guerra di indipendenza del 1848,
emigrò in Francia, dove si arruolò nella Legione straniera francese prestando
servizio in Algeria dal maggio 1853 al giugno del 1855. Cameriere su un
piroscafo, il 7 dicembre 1855, Gomez fu condannato a Marsiglia a sei mesi di
carcere per aver perso un baule affidatogli; scontata la pena nel 1856 emigrò
in Inghilterra a Birmingham e poi a Londra come garzone nel Café Chantant di
Leicester Square.
In Inghilterra aderì al
movimento mazziniano.
Il 14 gennaio 1858,
posizionato di fronte all'Opéra national de Paris. Gomez fu il primo a lanciare la bomba contro il
corteo imperiale, immediatamente seguito nel gesto da Carlo Di Rudio e Felice
Orsini. Fu arrestato poco dopo al ristorante Brogi, dove si era rifugiato.
Giovanni Andrea Pieri |
Il 26
febbraio 1858 fu condannato dalla corte d'Assise di Parigi per circostanze
attenuanti ai lavori forzati a vita. Scontò 29 anni nel carcere della Caienna e
liberato nel marzo 1887, a seguito della grazia, si ritirò a Napoli ove morì,
in estrema miseria, in età avanzata.
Giovanni Andrea Pieri
Giovanni Andrea Pieri (Santo
Stefano di Moriano -una frazione di Lucca- 1808 – Parigi, 13 marzo 1858), in
seguito ad un furto di cui fu accusato, emigrò giovane in Francia dove prestò
servizio nella Legione straniera francese. Si stabilì a Parigi e mise su famiglia,
lavorando come cappellaio. Qui entrò in contatto con la “Giovane Italia” di
Giuseppe Mazzini e militò nella “Unione degli operai italiani”, organizzata
nella capitale francese sempre dai fuoriusciti mazziniani.
Nel 1848
prese parte alla rivoluzione parigina e alla prima guerra di indipendenza in
Italia come ufficiale dei bersaglieri, dai quali fu cacciato nel 1849 con
l'accusa di concussione. Tornato in Francia, il colpo
di Stato del 2 dicembre 1851 mise in atto delle epurazioni che lo espulsero
dal paese dopo una condanna per truffa. Ormai ricercato dalle polizie di mezza
Europa riparò a Londra, dove conobbe Felice Orsini. Nella capitale inglese il
Pieri visse dando lezioni di lingue.
Il 14 gennaio 1858, a Parigi,
catturato pochi istanti prima dell'attentato a Napoleone
III, l'ispettore di polizia Hérbert gli trovò addosso
una bomba dirompente, una rivoltella e un passaporto tedesco in cui il suo nome
era alterato in Pierey. L'arresto del Pieri impedì il lancio di un'altra bomba,
che sarebbe stata l'ultima, ossia la quarta.
Processato il 25 febbraio con
l'accusa di essere stato complice nell'attentato, fu riconosciuto colpevole,
condannato a morte per parricidio e condotto sul luogo dell'esecuzione in
camicia, a piedi nudi, con il capo coperto da un velo nero. Venne esposto sul
patibolo, mentre un usciere diede lettura della sentenza e venne giustiziato
subito dopo, così sentenziò il giudice. La mattina del 13 marzo, nella piazza
antistante la prigione
della Roquette, di fronte ad un pubblico numeroso, il Pieri fu ghigliottinato,
e poco dopo la stessa sorte capitò a Felice Orsini.
Carlo Di Rudio
Il tenente Carlo di Rudio nell'esercito statunitense |
Il conte
Carlo Camillo Di Rudio (Belluno, 26 agosto 1832 – Pasadena, 1º novembre 1910)
fu avviato, appena quindicenne, alla carriera militare presso il Collegio
Militare di San Luca di Milano, l'odierna Scuola militare "Teuliè".
Nel 1848 fu coinvolto nei moti lombardi delle cinque giornate di Milano e
uccise un soldato austriaco croato responsabile di uno stupro e del conseguente
assassinio di due donne. Trasferito a Graz, ritornò clandestinamente a Belluno.
Abbracciando gli ideali mazziniani, accorse generosamente alla difesa di
Venezia.
Sfuggito
alla polizia austriaca, Carlo di Rudio riparò a Roma in difesa della giovane
Repubblica. Qui conobbe Garibaldi, Mazzini, i fratelli Emilio e Enrico Dandolo,
Aurelio Saffi, Goffredo Mameli e Nino Bixio. Con Venezia occupata dall'esercito
austriaco e Garibaldi
esule negli Stati Uniti d'America a New York, anche Di Rudio, ormai
perennemente braccato dalla giustizia di Vienna, riparò in Francia, ove nel
dicembre del 1851, a Parigi, si schierò coi Giacobini che si opponevano al colpo di
stato di Napoleone
III di Francia. Nello stesso
anno partecipò all'insurrezione mazziniana del Cadore.
Nel 1857 si trasferì a Genova,
cercando un imbarco per l'America del Nord. Naufrago, fu costretto a riparare
in Spagna, in Francia, Svizzera, Piemonte e, infine, nel Regno Unito. Qui per
un certo periodo il patriota dall'animo irrequieto ebbe una vita tranquilla,
dedita tutta alla famiglia seppur continuamente angustiata da problemi
economici. Per sbarcare il lunario, Di Rudio lavorò per qualche tempo come
giardiniere al servizio di Luigi Pinciani, un noto filantropo amico di Victor
Hugo e costantemente
in contatto con Giuseppe Mazzini.
Lo spirito rivoluzionario non
tardò ad avere il sopravvento sulla quotidianità di una vita anonima. Così,
quando si presentò la prima occasione per entrare nuovamente in azione, Di
Rudio si trovò subito pronto.
Partecipò al piano progettato
da Felice Orsini per assassinare l'imperatore Napoleone
III. Fallito l'attentato, Di Rudio fu catturato la
sera stessa e processato nel mese di febbraio con tutti gli altri congiurati
italiani. Di Rudio, condannato a morte in un primo tempo, riuscì tramite
l'abilità del suo avvocato, l'influenza del suocero inglese e grazie
all'indulgenza dell'imperatore a sfuggire alla ghigliottina, rimediando però,
nel dicembre 1858, una condanna all'ergastolo nella colonia penale della
malfamata Isola del Diavolo nella Caienna della Guyana francese.
Giunto alla Caienna meditò
costantemente su come fuggire al più presto da quell'inferno tropicale.
Considerato un sovversivo politico anche dai compagni di reclusione, dovette
rispondere con coraggio e forza fisica alle continue provocazioni degli
ergastolani francesi.
Nonostante tutto Di Rudio
riuscì a trovare degli alleati disposti a partecipare al suo tentativo di fuga.
Fallito un primo tentativo, dopo mesi e mesi di ulteriori preparativi segreti,
la fuga riuscì nel 1859, suscitando un clamore eccezionale in tutte le terre
coloniali francesi.
I fuggiaschi raggiunsero, dopo
innumerevoli peripezie, il territorio della colonia del Regno Unito Guyana,
trovandovi funzionari ben lieti di nasconderli alle pressanti richieste
francesi (molti deportati infatti erano condannati politici, invisi alla
monarchia francese ma non alla corona del Regno Unto). Da qui si imbarcò per il
Regno Unito. Era il 1860.
Nel Regno Unito, costantemente
afflitto da problemi economici, il giovane Di Rudio avrebbe voluto partecipare
ai moti del Risorgimento italiano ma, braccato dalla polizia francese e da
quella austriaca, privo di un futuro nel Regno Unito, consigliato dagli amici
più fidati e con in tasca una raccomandazione di Giuseppe Mazzini, preferì
emigrare con la famiglia negli Stati Uniti d'America.
Sbarcato a New York,
anglicizzò il suo nome in Charles DeRudio e nel 1861 trovò presto
impiego nell'esercito federale statunitense impegnato nella guerra civile. Come
semplice volontario, sostituto di un giovane ricco statunitense, fu arruolato
nel 79º Volontari Highlanders di New York. Si mise ben presto in luce presso i
suoi superiori, a tal punto che meritò i gradi di sottotenente di una compagnia
del 2º USCT, composta essenzialmente da soldati di origine afroamericana,
impegnata con compiti di polizia militare in Florida.
Terminata la guerra nel 1865 e
ancora una volta raccomandato da influenti amici repubblicani (i soli a
conoscere il suo vero passato), Carlo Di Rudio fu incorporato nei ranghi
dell'esercito statunitense e nel 1869 venne assegnato al 7th Cavalry Regiment
degli USA, alle dipendenze del personaggio più controverso della storia
statunitense, il tenente colonnello George Armstrong Custer.
Il 25 giugno 1876 Carlo Di
Rudio, assegnato alle squadre del capitano Marcus Reno, partecipò alla celebre
Battaglia del Little Bighorn, che vide impegnata la cavalleria statunitense
nella campagna contro le tribù dei Sioux, Hunkpapa, Oglala al comando di Toro
Seduto e dei Cheyenne capeggiate da Cavallo Pazzo. Il tenente Di Rudio, che fu
uno dei pochi superstiti del 7th Cavalry Regiment, nella battaglia eseguì
diligentemente gli ordini che lo vedevano impegnato in una colonna parallela
che doveva attaccare il campo dei nativi, ma si ritrovò ben presto circondato
da migliaia di nativi pronti a massacrare chiunque incontrassero. Come uno dei
pochi superstiti della battaglia, Di Rudio finì sulle prime pagine di tutti i
giornali statunitensi, tra polemiche, insinuazioni, inchieste, testimonianze in
aula. Il suo valore e il suo corretto comportamento militare alla fine furono
tuttavia riconosciuti. Trasferito ad altri incarichi, fu assegnato nelle terre
del Nordovest. Qui Carlo Di Rudio, ormai capitano, partecipò tra luglio e
ottobre 1877 alla guerra dei Nasi Forati che si concluse con l'epico
inseguimento a Capo Giuseppe, il nativo Nez Percé, che era riuscito a tenere in
scacco l'esercito americano con i suoi pochi guerrieri e la sua disperata fuga
verso il Canada.
Giunto in Texas con nuovi
incarichi logistici, l'ormai anziano soldato italiano riuscì a conoscere anche
il grande Geronimo degli Apache Chirichaua e nella ormai tranquilla guarnigione
di frontiera, nel 1896, a 64 anni d'età, egli raggiunse la tanto agognata
pensione. Ritiratosi a San Francisco, nel 1904 gli fu riconosciuto il grado di
maggiore. Carlo Di Rudio morì il 1º novembre del 1910 a Pasadena (California)
assistito dalle tre figlie Italia, Roma e America, in un letto sovrastato dai
ritratti dei suoi tanto amati compagni d'avventura: Pier Fortunato Calvi e
Giuseppe Mazzini.
Di Rudio fu anche al centro di
un mistero che non è ancora stato completamente svelato e riguarda i nomi di
tutti i componenti del famoso attentato a Napoleone
III. Difatti allo storico Paolo Mastri, che gli
scrisse nel 1908 poco prima della morte chiedendogli precisazioni
sull'attentato dell'Orsini del 1858, Di Rudio rispose di aver visto
personalmente Felice Orsini consegnare una delle sue bombe nientemeno che a
Francesco Crispi, ex capo del Governo italiano. Inoltre Di Rudio sostenne che
sarebbe stato proprio Crispi e non Orsini a lanciare la terza ed ultima bomba
contro il corteo imperiale (le altre due erano state lanciate, una dallo stesso
Di Rudio e l'altra da Gomez). L'esplosiva rivelazione scatenò una furiosa
polemica internazionale, che dall'Italia fu ripresa anche dai giornali francesi.
I parenti di Crispi, nel frattempo morto, la bollerono come fantasie senili;
altri lo difesero.
Gli storici odierni sembrano
non dar peso storico alle affermazioni di Di Rudio in quanto Crispi era sì
effettivamente a Parigi il giorno dell'attentato, dove venne arrestato e quindi
espulso dalla Francia, ma la descrizione fisica che ne dà Di Rudio, evocandolo
con i grossi baffi dell'età matura, stride con il fatto che Crispi portava
allora una folta barba. Ma soprattutto, visto che a quell'epoca Crispi era
ancora politicamente legato a Mazzini, il maggior nemico di Orsini, che lascerà
solo due anni dopo per unirsi a Garibaldi nella spedizione in Sicilia, è poco
probabile ipotizzare una partecipazione all'attentato del futuro presidente del
Consiglio.
[1] Il Quadrilatero
fu, tra il 1815 e il 1866, un sistema difensivo costruito dall'Impero austriaco
nel Lombardo-Veneto, che si dispiegava su un quadrilatero i cui vertici erano
le fortezze di Peschiera del Garda, Mantova, Legnago e Verona, comprese fra il
Mincio, il Po, l'Adige e dal 1850 circa
la ferrovia Milano-Venezia, tramite la quale erano garantiti i rifornimenti.
Difficilmente aggirabile, ostacolava i movimenti di truppe nemiche nella
pianura padana.