LA RIVOLUZIONE DI LUGLIO 1830
Con la rivoluzione di luglio, nota anche come
rivoluzione del 1830, seconda rivoluzione francese e Trois Glorieuses, avvenuta
a Parigi nelle giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830, fu rovesciato Carlo
X ultimo sovrano della dinastia dei Borbone, e sostituito da Luigi
Filippo, il re della monarchia di luglio.
Dopo un lungo periodo di crisi ministeriali prima,
parlamentari poi, re Carlo
X tentò un colpo di mano
anti-costituzionale emanando le «ordinanze di Saint-Cloud» il 25 luglio 1830.
In reazione il movimento di opposizione si trasformò rapidamente in rivoluzione
repubblicana: il popolo parigino si sollevò, eresse le barricate e affrontò le
truppe comandate dal maresciallo Marmont in combattimenti che provocarono
almeno ottocento morti fra gli insorti e circa duecento fra i soldati.
Carlo
X la famiglia abbandonarono che Parigi. I deputati
liberali, in maggioranza monarchici, presero le redini della rivoluzione
popolare e conservarono la monarchia costituzionale al prezzo di un cambiamento
di dinastia. La casa d'Orléans, ramo cadetto di quella di Borbone, succedette
sul trono di Francia con Luigi
Filippo, proclamato «re dei Francesi» e non più
«re di Francia».
La rivoluzione del 1830 non provocò rivolgimenti
istituzionali né in Francia né in Europa, ma per la prima volta dal tempo della
rivoluzione del 1789 un'ondata di rivoluzioni popolari attraversò l'Europa.
Carlo X |
Il principe Jules de Polignac |
Constatando il fallimento del suo tentativo di
compromesso, Carlo
X preparò segretamente un cambiamento
di rotta politica: durante l'estate del 1829, quando le Camere erano in
vacanza, licenziò il visconte di Martignac sostituendolo con il principe di
Polignac. Pubblicata nel quotidiano Le Moniteur l'8 agosto, la notizia
ebbe l'effetto d'un'esplosione: il nuovo ministro evocava i peggiori ricordi della corte di Versailles,
al suo fianco, il conte de La Bourdonnaye, ministro dell'Interno, era un
ultrarealista fanatico, che nel 1815 aveva
reclamato «supplizi, ferro, carneficine e morte» per i complici di
Napoleone, mentre il ministro della Guerra, il generale Bourmont, era un
vecchio ribelle, poi passato a Napoleone prima di tradirlo pochi giorni prima
della battaglia di Waterloo.
L'opposizione, di conseguenza, si espresse con
indignato clamore. Bertin, direttore del Journal des débats, pubblicò un
articolo che si concludeva con la formula: «Disgraziata Francia! Disgraziato re!»,
stigmatizzando «la corte con i suoi vecchi rancori, l'emigrazione con i suoi
pregiudizi, il clero con il suo odio per la libertà».
Polignac,
era un fanatico bigotto maniaco del diritto divino dei re. Carlo
X e Polignac stesso
volevano ristabilire la monarchia assoluta,
quella prima del 1789, mentre l’opposizione voleva una monarchia
parlamentare. In realtà, queste erano due concezioni della monarchia
costituzionale, ossia due interpretazioni della Costituzione del 1814, che si
affrontavano nel 1829/1830. Da una parte il re voleva
attenersi a una interpretazione stretta della Carta: per lui, il re poteva
nominare i ministri di sua scelta e doveva rinviarli alle Camere solo nei due
casi previsti, tradimento e concussione. Dall'altra parte, i liberali avrebbero
voluto far evolvere il regime alla forma inglese, verso un parlamentarismo che
la Costituzione non aveva esplicitamente previsto: essi ritenevano che il ministero avrebbe
dovuto avere la fiducia della maggioranza della camera dei deputati.
Questo dibattito venne risolto solo dalla rivoluzione di luglio.
L'indirizzo
dei 221
All'inizio del 1830 il clima politico in Francia era
elettrico. Thiers,
Carrel, Mignet e Sautelet inaugurarono, il 3 gennaio 1830, un nuovo quotidiano
di opposizione, Le National che
con Le Globe e Le Temps iniziò una dura campagna a favore di una
monarchia parlamentare, evocando apertamente la gloriosa rivoluzione inglese
del 1688, conclusasi con la deposizione di Giacomo II.
Il 2 marzo 1830, all'apertura della sessione
parlamentare, Carlo
X pronunciò il discorso della Corona,
annunciando la spedizione coloniale ad Algeri e minacciando, implicitamente l'opposizione, di governare per decreti in caso di
ostruzionismo.
Per tutta risposta il 16 marzo la Camera dei deputati
votò il cosiddetto indirizzo dei 221 (dal nome del numero dei deputati
dell’opposizione), con il quale espresse la propria richiesta a Carlo
X di sostituire il ministero del
conservatore principe di Polignac con uno più affine alle nuove Camere e,
soprattutto, di accettare una modifica della Carta verso un regime
parlamentare.
Il 18 marzo l'indirizzo venne presentato al re:
questi rispose, con arroganza e determinazione: “le mie risoluzioni sono
immutabili”. Il giorno dopo un'ordinanza aggiornava la sessione dei lavori
parlamentari al 1º settembre. Disse il re: “preferisco salire a cavallo
(quello dell'esilio) che in carretta (quella della ghigliottina)”.
La decisione di Carlo
X suscitò una vera ebollizione: circolavano le più
diverse dicerie. Si accusava il re e i suoi ministri di preparare un colpo di
Stato, altri sostenevano che Polignac, già ambasciatore a Londra e
amico del primo ministro britannico, il duca di Wellington, pensava di
richiedere, con l'appoggio inglese, l'aiuto delle potenze straniere nel caso in
cui il re fosse indotto a sospendere o modificare la Costituzione.
Nell'aprile
del 1830 il conte de Montlosier pubblicò l'opuscolo Le Ministère et la
Chambre des députés, nel quale sosteneva che, se i diritti reali erano incontestabili al riguardo della
scelta dei ministri, era lecito
tuttavia contestare la convenienza delle sue scelte.
Al Palais-Royal, Vatout,
bibliotecario e intimo del duca d'Orléans, consigliò a quest’ultimo di utilizzare
la situazione a proprio profitto. I familiari del duca, il generale Gérard, Thiers, Talleyrand[1]
e altri, erano ormai persuasi che il ramo maggiore dei Borbone fosse perduto,
ma Luigi
Filippo tergiversava.
Il 16 maggio 1830, quando il corpo di spedizione fu
pronto a partire alla conquista di Algeri, Carlo
X sciolse la Camera dei deputati e convocò i collegi
circoscrizionali per il 23 giugno e quelli dipartimentali per il 3 luglio.
Nell'immediato la decisione del re provocò un rimescolamento degli incarichi di
governo.
Il 13 giugno Carlo
X pubblicò sul Moniteur un appello ai francesi,
accusando i deputati «di non aver compreso le [sue] intenzioni» e
chiese agli elettori «di non lasciarsi distogliere dal linguaggio insidioso
dei nemici della quiete», di «respingere le supposizioni indegne e le
false lamentele di chi farebbe strage della
pubblica fiducia e potrebbe spingere a gravi disordini» e concluse: «È
il vostro re che lo domanda. È un padre che vi chiama. Adempite ai vostri
doveri e io adempierò ai miei». La manovra fu rischiosa perché il re si
espose in prima persona.
Le elezioni furono una grave sconfitta per il re:
l'opposizione passò da 221 a 270 deputati, i governativi da 181 a 145 e tredici
deputati furono disputati dai due campi.
Sin qui Carlo
X aveva seguito il percorso costituzionale indicato dal
fratello e predecessore Luigi XVIII. Ne seguiva, giurisprudenzialmente e logicamente, la
necessità di dichiarare un vincitore e chiudere il contrasto.
Tuttavia questa non era l'opinione del re, il quale
era dominato da ben altri pensieri: lui stesso fratello minore di Luigi XVI, il re ghigliottinato, ricordava
bene come quest'ultimo avesse perso il trono proprio a causa di un eccesso di
accomodamento nei confronti di una maggioranza recalcitrante. Nella sua
ostinata determinazione la corte era sostenuta dai contemporanei successi di
politica estera: il 9 luglio giunse a Parigi la notizia del grande successo
militare della conquista di Algeri. Il successo, unito alle rassicurazioni offerte
dal prefetto di polizia che «Parigi non si muoverà», confortarono
il sovrano e i suoi ministri a forzare l'impasse politica interna.
Di fronte a un simile rafforzamento della posizione
della corte e del governo i deputati liberali più vicini al duca d'Orléans
proposero di sostenere il ministero, insieme a un inasprimento alla legge
elettorale e alle leggi sulla stampa, chiedendo in compenso l'ingresso al
governo di tre ministri liberali. Nemmeno fra i deputati più a sinistra si
prendeva in considerazione il ricorso alla piazza: la gran parte dei deputati
liberali, espressione dell'aristocrazia e della grande borghesia, tenevano ai
privilegi offerti loro dalla vigente legge elettorale censuaria e non erano
affatto democratici. Essi temevano un'insurrezione popolare quanto e forse più
della corte, non avendo i mezzi per gestirla. A cosa corrispondessero le
intenzioni dei più esagitati di loro si vide il 10 luglio, allorché una
quarantina di deputati e di pari di Francia, riuniti presso il duca de Broglie,
promisero di rifiutare il voto sul bilancio, ovvero la massima minaccia
concepita da uno dei teorici estremi del liberalismo, il Constant.
A partire dal 10 luglio il sovrano e i suoi ministri
presero a predisporre, nel più grande segreto, la successiva mossa: stabilirono
di potersi servire di un ultimo appiglio costituzionale (l'Art. 14 della Carta)
che attribuiva al sovrano il potere di fare «i regolamenti e le ordinanza
necessarie per... la sicurezza dello Stato». Il 25 luglio 1830 Carlo
X riunì il ministero nella propria
residenza estiva al castello di Saint-Cloud, nell'immediata periferia
occidentale di Parigi, e registrò la loro firma a sei ordinanze, dette
ordinanze di Saint-Cloud:
La prima imponeva l'autorizzazione preventiva
necessaria per tutte le pubblicazioni: in pratica la soppressione della libertà
di stampa.
La seconda disponeva la dissoluzione della Camera dei
deputati: per la seconda volta in settanta giorni, senza che la nuova
assemblea, appena eletta, si fosse riunita una sola volta.
La terza introduceva una modificazione della legge
elettorale: da sempre censuaria, ai fini del calcolo delle soglie di
ammissione, venivano da ora considerati i soli redditi fondiari (con esclusioni
di quelli derivanti dai commerci, dalla finanza e in generale dalle professioni
liberali). Per soprammercato l'ammissione non sarebbe stata automatica, ma anzi
i prefetti avrebbero stilato una lista degli elettori solo cinque giorni prima
delle elezioni, rendendo impossibile ogni ricorso. Veniva infine reintrodotto
un sistema di elezione a due livelli, simile a quello della Legge del doppio
voto del 1820.
La quarta stabiliva la data delle nuove elezioni: 6 e
13 settembre.
La quinta e la sesta nominavano a consiglieri di Stato
dei noti esponenti di parte ultrarealista.
Per giunta le ordinanze risultavano gravemente lesive
degli interessi di due solide componenti della società francese: anzitutto la
maggioranza della Camera, che si vedeva certamente preclusa da una successiva
vittoria elettorale; poi la stampa di opposizione, che si sapeva destinata a
subita chiusura. Non stupisce quindi che siano stati proprio gli operai
tipografici a reagire per primi, avviando la sollevazione.
Cronologia
26
luglio: fermenta la rivolta
Le sei ordinanze furono sottoscritte domenica 25
luglio. Quel giorno, alle 11 di sera, il guardasigilli Chantelauze fece
consegnare il testo al redattore capo del Moniteur, il foglio ufficiale,
comandandone la stampa quella notte, in vista della pubblicazione per
l'indomani, lunedì 26 luglio 1830.
Il lunedì del 26 luglio la pubblicazione delle
ordinanze immerse il Paese in un vero e proprio stato di stupore. L'atto di
forza era atteso, ma non si pensava che fosse portato prima della riunione
delle Camere, prevista per il 3 agosto. L'effetto della sorpresa fu dunque
totale e la maggior parte degli oppositori non era ancora rientrata a Parigi.
Il deputato Gilbert du Motier de La Fayette,
generale, militare e politico francese con cittadinanza statunitense, protagonista
sia della Rivoluzione americana prima sia della Rivoluzione francese poi, si
oppose fermamente alle restrizioni che Carlo
X impose alle libertà civili e all'introduzione della
censura della stampa. Pronunciò dei discorsi infuocati alla Camera, denunciando
i nuovi decreti e sostenendo un governo rappresentativo in stile americano.
Nel primo pomeriggio i proprietari del giornale Constitutionnel
organizzarono una
riunione dal loro legale, André Dupin, deputato liberale e avvocato di Luigi
Filippo, duca d'Orléans. Dupin spiegò che le ordinanze erano in contrasto con
la Costituzione, ma alla proposta di Charles de Rémusat (politico e filosofo)
di presentare una protesta, Dupin obiettò che la riunione si stava tenendo in
uno studio legale e non avrebbe dovuto assumere un aspetto politico. Rémusat e
l’editore Leroux si recarono allora negli uffici del giornale National, dove era in corso una
riunione con Thiers e
altri. Il giornale pubblicò un'edizione straordinaria invitando alla resistenza
attraverso il mezzo dello sciopero delle imposte. Thiers e Rémusat proposero di organizzare una
protesta solenne, subito redatta, firmata da quarantaquattro giornalisti e
pubblicata il mattino dopo dai giornali Le National, Le Globe e Le Temps: «Il regime legale è... interrotto, è iniziato quello della forza. Nella
situazione in cui siamo, l'obbedienza cessa di essere un dovere... perché oggi
ministri criminali hanno violato la legalità. Siamo dispensati d'obbedire.
Cercheremo di pubblicare i nostri giornali senza richiedere l'autorizzazione
che ci viene imposta».
Nello stesso momento i deputati liberali presenti a
Parigi cercarono di organizzarsi, ma ancora in maniera timida perché temevano
la reazione del governo.
Contemporaneamente cominciarono a formarsi
assembramenti al Palais-Royal,
a place du Carrousel
e a place Vendôme,
sotto la spinta dell'Associazione di gennaio. Si gridò: «Vive la
Charte! À bas les ministres! À bas Polignac!». I manifestanti riconobbero la
carrozza di Polignac che, col barone d'Haussez, rientrava al ministero degli
Esteri. Si lanciarono pietre e dei vetri si ruppero fra le imprecazioni del
barone, ma la carrozza riuscì a entrate nel ministero, i cui portoni furono
subito chiusi.
Il 27 luglio, ignorando le ordinanze, Le
National, Le Temps, Le Globe e Le Journal du commerce pubblicarono
senza autorizzazione la protesta dei giornalisti: il prefetto di polizia,
Claude Mangin, ordinò il sequestro dei quattro quotidiani e vennero spiccati i
mandati di arresto per i firmatari della protesta; si verificarono anche
tafferugli fra la polizia e gli operai delle tipografie, i quali temevano di
perdere il lavoro e avrebbero poi formato lo zoccolo duro dell'insurrezione.
Da almeno un anno attivisti
repubblicani e bonapartisti avevano preparato il terreno. Anche se pochi, i
repubblicani erano tuttavia attivi e determinati, tra questi: Godefroi Cavaignac[2],
François Vincent Raspail[3],
e Auguste
Blanqui. I
bonapartisti, generalmente vecchi soldati del Primo Impero, erano più numerosi
ma, più discretamente, agivano all'interno di società segrete, sotto l'egida
della Carboneria.
Intanto primi gruppi di
rivoluzionari avevano cominciato a scontrarsi con la polizia e la gendarmeria intorno al Palais-Royal. Studenti e operai dell'Associazione
patriottica di Morhéry innalzarono barricate. La folla (formata per la maggior
parte da emarginati, da vittime della crisi economica, artigiani, commercianti e impiegati, molti dei quali
avevano fatto parte della disciolta Guardia
Nazionale, soppressa nel 1827) era esasperata per
l'annuncio della nomina del maresciallo Marmont a comandante della 1ª
divisione militare di Parigi. Come Bourmont, agli occhi del popolo Marmont
rappresentava l'archetipo del traditore. Quella sera i soldati cominciarono a
sparare e si contarono i primi
morti: da questo momento cominciava la rivoluzione.
La repressione cominciò l'azione menomata dal ritardo
con cui il prefetto di polizia e le autorità militari vennero informati della
pubblicazione e dall'assenza dalla capitale del ministro della guerra,
maresciallo Bourmont, a capo della spedizione: solo a cose fatte il ministero
assunse le necessarie severe misure di resistenza.
Quando La Fayette, che era nel suo Château, fu
informato di quello che stava accadendo, corse in città e fu acclamato come uno
dei leader della rivoluzione. Mentre i suoi colleghi deputati erano indecisi,
La Fayette si presentò alle barricate e ben presto le truppe realiste furono
sconfitte. Temendo che gli eccessi della rivoluzione del 1789 si stessero per
ripetere, i deputati resero La Fayette nuovamente comandante in capo di una
restaurata Guardia
Nazionale con il compito di mantenere l'ordine. La Camera era disposta
addirittura a proclamare la Repubblica e a nominarne La Fayette presidente, ma questi
rifiutò questa concessione di potere che riteneva incostituzionale.
28 luglio: la rivoluzione
Il mattino del 28 luglio il
centro e la zona orientale della capitale erano irte di barricate e gli insorti
svuotarono le armerie al canto della Marsigliese; alle undici i ministri, con
Polignac in testa, si rifugiarono nelle Tuileries[4] da Marmont, che giudicava
molto seria la situazione e pertanto mandò al re un messaggio rimasto famoso: «Non è più una sommossa, è una rivoluzione. È
urgente che Vostra Maestà decida misure di pacificazione. L'onore della Corona
può ancora essere salvato. Forse domani sarà troppo tardi».
Carlo
X non rispose, ma la sera Polignac informò Marmont che Carlo
X aveva firmato l'ordinanza di stato
d'assedio: Marmont aveva così i pieni poteri per schiacciare la rivoluzione, ma
disponeva di soli 10.000 soldati, che giudicò insufficienti (la capitale era
stata sguarnita per costituire il corpo di spedizione coloniale) per mandare
truppe in Normandia, dove imperversavano incendi dolosi, e per controllare la
frontiera belga, dove si temevano disordini.
Durante la giornata i soldati erano
sotto una pioggia di proiettili provenienti dalle stradine barricate del centro
storico di Parigi. Gli insorti avevano conquistato
l'Hôtel
de Ville (il
Municipio), sul cui tetto sventolava il tricolore, con intensa emozione della
popolazione. L'edificio, di alto valore simbolico, venne perduto e ripreso
più volte.
Intanto i deputati liberali continuavano a cercare
una soluzione di compromesso allo scopo di ottenere il ritiro delle ordinanze,
ma il re rifiutò ogni concessione. I deputati decisero di designare una
commissione di cinque membri per ottenere un cessate il fuoco. La delegazione
dei deputati fu ricevuta da Marmont: il maresciallo, invocando gli ordini del
re, esigette la fine dell'insurrezione mentre i deputati reclamavano il ritiro
delle ordinanze e il licenziamento del governo. La discussione ebbe presto
termine perché Polignac rifiutò di ricevere i deputati. Marmont mandò un
messaggio a Carlo
X: «È urgente che Vostra Maestà approfitti senza
indugio delle aperture fatte», mentre contemporaneamente Polignac mandava un emissario
chiedendo al re di non cedere. La risposta del re a Marmont fu di «tener duro»
e concentrare le truppe tra il Louvre
e gli Champs-Élysées.
Nella notte fra il 27 e il 28 luglio il duca
d'Orléans venne avvertito che un battaglione della Guardia reale aveva ricevuto
l'ordine di circondare il suo castello
di Neuilly «al minimo movimento che possa far supporre la sua intenzione
di unirsi all'insurrezione» e Luigi
Filippo passò quindi la notte in un
casolare al fianco del piccolo castello
di Villiers.
Nella notte del 28-29 luglio si
innalzarono nuove barricate; nella mattina il 5º e il 53º Reggimento che
tenevano place Vendôme
passarono agli insorti. Per colmare il vuoto prodottosi nelle sue file Marmont
dovette sguarnire il Louvre
e le Tuileries che,
subito attaccati, caddero nelle mani degli insorti, mentre le truppe reali ripiegarono in disordine fino all'Étoile. La sera
l'insurrezione era padrona di Parigi e i resti dell'esercito di Marmont si
concentrarono al Bois de Boulogne a protezione
della residenza reale di Saint-Cloud.
All'alba del 30 luglio due Pari di
Francia, il marchese de Sémonville e il conte d’Argout, si recarono alle Tuileries chiedendo le
dimissioni di Polignac e il ritiro delle ordinanze: alla fine del tempestoso
colloquio si precipitarono dal re, proprio mentre questi apprese la notizia
della sconfitta di Marmont. Quella stessa mattina il deputato generale Gérard
chiese non solo il ritiro delle ordinanze e il licenziamento di Polignac, ma
l'affidamento al duca de Mortemart di un nuovo governo. Carlo
X, privo ormai di ogni altra risorsa,
accettò quelle condizioni.
Giunta notte, mentre la capitale restava nelle mani
dei rivoluzionari, il trono di Carlo
X appariva condannato.
Il 30 luglio deputati e giornalisti entrarono in
scena per utilizzare la rivoluzione popolare a profitto della borghesia. Venne
scartata la soluzione istituzionale repubblicana per timore che questa
innescasse processi incontrollabili per gli interessi delle forze moderate: la
soluzione di una monarchia orléanista fu pertanto giudicata la migliore per
fare lo sgambetto ai repubblicani, che non furono capaci di darsi
un'organizzazione.
L'offensiva venne lanciata all'alba di venerdì 30
luglio da Jacques Laffitte[5] e Thiers, rientrato il giorno prima a Parigi, con la
benevolente complicità di Talleyrand che da qualche tempo puntava sul duca
d'Orléans per salvare la monarchia. Thiers e Mignet scrissero sul
National un appello: «Carlo
X non può rientrare a Parigi: egli ha fatto
scorrere il sangue del popolo. La repubblica ci esporrebbe a terribili
divisioni e ci inimicherebbe l'Europa. Il duca d'Orléans è un principe devoto
alla causa della rivoluzione. Il duca d'Orléans non si è mai battuto contro di
noi. Il duca d'Orléans ha portato in alto il tricolore. Il duca d'Orléans
soltanto può portarlo ancora: non ne vogliamo un altro. Il duca d’Orléans si è
pronunciato; accetta la Costituzione come l'abbiamo sempre voluta. È il popolo
francese che terrà la sua corona».
Nel Palazzo
Borbone, la sede del Parlamento, i
deputati consideravano Carlo
X decaduto e designarono una commissione di cinque
membri per discutere con i pari, i quali si recarono al Palazzo
del Luxembourg spiegando al duca di
Mortemart che Carlo
X aveva
cessato di regnare e che il duca d'Orléans era l'unico riparo dalla repubblica;
Mortemart ammise che, a suo giudizio, la soluzione indicata era la meno
peggiore e anche gli altri pari presenti erano concordi.
A mezzogiorno
i deputati si riunirono ancora a Palazzo
Borbone tranne uno, devoto a Carlo
X, e pochi
favorevoli alla repubblica, tutti gli altri erano per Luigi
Filippo; l'unico problema per loro era se
considerarlo luogotenente generale del regno o re a tutti gli effetti. Venne
scelta la proposizione redatta dal nobile intellettuale Benjamin Constant nella
quale si «prega S. A. R. M. il duca d'Orléans di venire nella capitale per
esercitarvi le funzioni di luogotenente generale del regno» esprimendogli «il
voto di conservare i colori nazionali».
Adesso non restava che convincere Luigi
Filippo che
fosse venuto il tempo di decidersi, ma il duca d'Orleans temette di entrare a
Parigi troppo presto, pensando che Carlo
X non fosse ancora fuori gioco. Giudicando prudente aspettare
ancora, Luigi
Filippo lasciò Neuilly per il suo castello di Raincy, a Levallois
31 luglio: l'entrata in scena di Luigi
Filippo
Luigi
Filippo lasciò Neuilly alle dieci di sera, diretto al Palais-Royal. Durante il
cammino rese visita a Talleyrand, assicurandosi il suo appoggio. A mezzanotte
giunse al Palais-Royal,
dove passò la notte.
Alle quattro del mattino Mortemart
arrivò da Luigi
Filippo, che dormiva su un materasso gettato a terra, in una
piccola stanza dove faceva un caldo
soffocante. Il duca d'Orléans si alzò, senza camicia né parrucca, tutto sudato
e tenne un lungo discorso a Mortemart per convincerlo della sua fedeltà al re:
«Se vedrete il re, ditegli che sono stato
condotto a Parigi a forza [...] che
mi farò fare a pezzi piuttosto che lasciarmi posare la corona in testa»,
informandolo che i deputati l'avevano nominato luogotenente generale per
ostacolare la formazione della repubblica, gli chiese se egli era
disponibile a riconoscere questa nomina. Alla sua risposta negativa il duca gli
consegnò una lettera per il re, dove confermava la sua lealtà e dichiarò che se
fosse stato costretto a esercitare il potere, sarebbe solo pro tempore e nell'interesse
della casata.
Qualche ora dopo Luigi Filippo apprese che Carlo X, cedendo al panico e alla sfiducia, aveva lasciato la reggia di Saint-Cloud per il Trianon, un palazzo nei pressi di Versailles: fece subito richiamare Mortemart e si fece riconsegnare la lettera con il pretesto di portarvi delle correzioni. Ormai il dado era tratto, il trono era vacante e bastava sedervisi, quindi alle nove del mattino Luigi Filippo, ricevendo la delegazione dei deputati, dichiarò di non poter subito accettare la luogotenenza in ragione dei suoi legami di famiglia con Carlo X che gli imponevano doveri personali e perché intendeva anche chiedere consigli «a persone nelle quali ripongo fiducia e che non sono ancora qui». Quella che apparve una sua manovra, riuscì perfettamente: i deputati lo supplicarono di accettare immediatamente, agitando lo spettro di una repubblica che potrebbe essere presto proclamata all'Hôtel de Ville; in tal modo Luigi Filippo avrebbe sempre potuto affermare che gli si forzò la mano e che egli si era impegnato solo per salvare la monarchia. Il duca d'Orléans redasse un proclama, accettato dai deputati presenti:
Luigi Filippo lascia il Palais-Royal per l'Hôtel de Ville il 31 luglio 1830, Horace Vernet 1832 |
Qualche ora dopo Luigi Filippo apprese che Carlo X, cedendo al panico e alla sfiducia, aveva lasciato la reggia di Saint-Cloud per il Trianon, un palazzo nei pressi di Versailles: fece subito richiamare Mortemart e si fece riconsegnare la lettera con il pretesto di portarvi delle correzioni. Ormai il dado era tratto, il trono era vacante e bastava sedervisi, quindi alle nove del mattino Luigi Filippo, ricevendo la delegazione dei deputati, dichiarò di non poter subito accettare la luogotenenza in ragione dei suoi legami di famiglia con Carlo X che gli imponevano doveri personali e perché intendeva anche chiedere consigli «a persone nelle quali ripongo fiducia e che non sono ancora qui». Quella che apparve una sua manovra, riuscì perfettamente: i deputati lo supplicarono di accettare immediatamente, agitando lo spettro di una repubblica che potrebbe essere presto proclamata all'Hôtel de Ville; in tal modo Luigi Filippo avrebbe sempre potuto affermare che gli si forzò la mano e che egli si era impegnato solo per salvare la monarchia. Il duca d'Orléans redasse un proclama, accettato dai deputati presenti:
«Parigini! I deputati della Francia, riuniti in
questo momento a Parigi, hanno espresso il desiderio che io venissi in questa
capitale per esercitarvi le funzioni di
luogotenente generale del regno. Non ho esitato a venire a dividere con
voi i pericoli, a mettermi fra questa eroica popolazione e a fare ogni sforzo
per evitarvi la guerra civile e l'anarchia. Entrando nella città di Parigi portavo
con orgoglio questi gloriosi colori che voi avete ripresentato e che io stesso
avevo portato a lungo. Le Camere stanno per riunirsi; esse assicureranno il
regime delle leggi e il mantenimento dei diritti della nazione. La Costituzione
sarà finalmente una verità».
Accogliendo questo proclama, i deputati risposero nel
pomeriggio:
«Francesi! La Francia è libera. Il potere assoluto ha
ammainato la sua bandiera, l'eroico popolo di Parigi l'ha abbattuto. Parigi
attaccata ha fatto trionfare con le armi la sacra causa che aveva invano
trionfato alle elezioni. Un potere usurpatore dei nostri diritti, perturbatore
della nostra quiete, minacciava la libertà e l'ordine; noi riprendiamo possesso
dell'ordine e della libertà. Niente più timori per i diritti acquisiti, niente
più barriere tra noi e i diritti che ancora ci mancano.
Il duca d’Orléans |
Daremo alle nostre istituzioni, di concerto con il
Capo dello Stato, gli sviluppi di cui esse hanno bisogno. Francesi! Il duca
d’Orléans stesso ha già parlato e il suo linguaggio è quello che conviene a un
paese libero: le Camere stanno per riunirsi, vi dice; esse troveranno il modo
di assicurare il regno delle leggi e il mantenimento dei diritti della nazione.
La Costituzione sarà finalmente una verità».
Firmato da quasi novanta deputati, l'atto venne
portato al Palais-Royal.
Tuttavia la manovra in favore del duca d'Orléans, appena conosciuto all'Hôtel
de Ville, suscitò la
rabbia dei repubblicani.
Il duca d'Orléans avrebbe quindi dovuto recarsi all'Hôtel
de Ville per eliminare
definitivamente, con la complicità di La Fayette, lo spettro della repubblica.
La manovra ebbe qualche rischio, ma fu indispensabile. Alle due del pomeriggio
un corteo picaresco lasciò il Palais-Royal.
Mentre il corteo avanzava con difficoltà sul
lungosenna attraverso le barricate verso l'Hôtel
de Ville, altre grida
si levarono da una folla sempre più ostile: "Abbasso i Borboni! Basta con i Borboni! A morte i Borboni! Abbasso il
duca d'Orléans!". Arrivato all'Hôtel
de Ville Luigi
Filippo, vestito in
uniforme di guardia nazionale, esclamò, indicando il generale La Fayette, il
quale trascinò Luigi
Filippo al balcone dove i due, al di sopra della folla
ammassata, si abbraccirono platealmente, avvolti ciascuno da una grande
bandiera tricolore. La brillante messa in scena e il «bacio repubblicano» di La
Fayette, secondo l'ironica formula di Chateaubriand, consegnava definitivamente
il trono a Luigi
Filippo.
[1] Principe e politico, considerato
tra i maggiori esponenti del camaleontismo.
Servì la monarchia di Luigi XVI, poi
la Rivoluzione francese nelle sue varie fasi, l'impero di Napoleone Bonaparte e
poi di nuovo la monarchia, questa volta quella di Luigi XVIII, fratello e successore del primo
monarca servito. Infine aiutò l’ascesa di Luigi Filippo, l’ultimo re di
Francia.
[2] Figlio del generale
francese Jean-Baptiste Cavaignac, deputato della Convenzione nazionale e di
Marie-Julie de Corancez, letterata. Fin dalla tenera età fu educato ad
occuparsi di politica, cosicché si ritrovò celebre quando aveva ancora solo 20
anni. Profondamente antimonarchico, fu il fulcro del movimento rivoluzionario
che portò allo scoppio dei moti del 1830-31.
[3] François
Vincent Raspail è stato un politico e scienziato francese. Affiliato alla
Carboneria, partecipò alla Rivoluzione di Luglio e fu ferito durante l'attacco
a una caserma. L'11 gennaio 1870 denunciò le manovre della Corte per
mandare impunito il principe Pierre Napoléon Bonaparte, responsabile della
morte di Victor Noir, che fu infatti assolto in marzo dai giudici compiacenti.
Fu a Parigi durante l'assedio e la Comune, mantenendo un atteggiamento
neutrale, ma per aver commemorato il Comunardo Louis Charles Delescluze nel suo
Almanach et calendrier météorologique de 1874, fu condannato, lui ottantenne,
a un anno di prigione.
[4] Il
Palazzo delle Tuileries servì come residenza reale fino al 1848.
[5] Politico e banchiere fu
uno dei primi a considerare la salita al trono, in caso di necessità, del duca
d'Orléans. Nel corso di molti anni accarezzò e portò avanti il progetto,
soprattutto procurando sostenitori al principe.