mercoledì 21 novembre 2018

01-04-D - Il declino dell'Impero

IL DECLINO DELL’IMPERO


Napoleone III imperatore,
ritratto da Alexandre Cabanel (1865))
La crisi economica che aveva investito la Francia, raggiungendo il suo culmine nel 1847, andò attenuandosi fino a risolversi nei primi anni Cinquanta. Iniziò allora un grande progresso industriale. In venti anni triplicò la produzione della principale fonte energetica di allora, il carbone, il numero delle macchine a vapore si quintuplicò, la produzione di ferro e acciaio aumentò di tre volte, dai 3.000 chilometri di linee ferroviarie esistenti nel 1850 si passò a 16.000. L'industria cotoniera, malgrado la lunga crisi provocata dalla guerra civile americana, registrò l'aumento di quasi due terzi del numero dei telai. Produzioni tradizionali, come quella della seta a Lione, andarono in crisi, ma vennero sostituite da quelle metallurgiche, meccaniche e chimiche.
Con l'aumento della produzione, avvennero le concentrazioni industriali, aumentarono i centri commerciali e finanziari, si crearono nuove banche, la speculazione creò improvvise ricchezze, il mondo degli affari si legò a quello della politica. Molti uomini d'affari diventarono deputati e senatori.
Lo Stato bonapartista non stette a guardare, anche se i principi economici dominanti, formalmente liberisti, volevano che esso si astenesse dall'intervenire: invece, in presenza di uno sviluppo industriale senza precedenti, il Secondo Impero dette inizio al saccheggio della Francia da parte di una banda di avventurieri della politica e della finanza, Luigi Bonaparte tolse ai capitalisti il potere politico con il pretesto di proteggerli dagli operai ma in compenso il suo governo favorì la speculazione e l'attività industriale, in altre parole favorì l'ascesa e l'arricchimento della borghesia nel suo insieme, in misura fino ad allora inaudita.


L'autoritarismo

Allo stesso modo, da buon populista, Napoleone III amava presentarsi agli operai e, in generale, alle grandi masse popolari come colui che aveva a cuore i destini della povera gente, intanto che limitava i loro diritti politici, proibiva quelli sindacali ed esercitava sulle loro organizzazioni un continuo controllo poliziesco. Il suo gioco, come succede a tutti i demagoghi, se mai poté illudere qualcuno, non poté però durare a lungo.
Infatti, la prima fase del Secondo Impero fu fortemente autoritaria, contrassegnata dalla repressione dell'opposizione - in particolare di quella liberale - e da un fortissimo intervento sulla stampa, sulla politica scolastica (soppressione dell'insegnamento della filosofia nei licei, aumento dei poteri disciplinari dell'amministrazione scolastica), e su ogni altra espressione di autonomia popolare.
Il suffragio universale fu governato, oltre che dall'azione dei prefetti, da abili aggiustamenti dei distretti elettorali, finalizzati - in provincia - ad annegare il voto liberale nella massa conservatrice del voto rurale.
La stampa venne assoggettata ad un sistema di cauzioni monetarie (depositi a titolo di garanzia di buona condotta) e di "avvertimenti", cioè richieste da parte dell'autorità di sospendere la pubblicazione di certi articoli, pena la sospensione o la soppressione del giornale. Anche i libri furono assoggettati a censura.
Nei fatti, della povertà dei suoi sudditi l'imperatore non si preoccupò affatto, se non nella misura in cui essa poteva tramutarsi in rivolta e minacciare l'«ordine» sociale. Si crearono così, secondo una logica paternalistica, società di beneficenza, mentre le società operaie di mutuo soccorso dovevano essere approvate dal governo, che nominava il loro presidente, e il prefetto ne nominava il segretario. Per i disoccupati non era prevista alcuna provvidenza, poiché, si sosteneva, avrebbe provocato «ogni genere di sciopero e di contestazione». Dal momento che furono vietate tutte le associazioni e gli operai erano soliti ritrovarsi nelle taverne e nei caffè, un decreto si preoccupò di individuare e all'occorrenza chiudere immediatamente i locali «pericolosi per l'ordine pubblico».
Sul piano del controllo individuale, fu istituito un sistema di sorveglianza poliziesca degli individui sospetti, che ebbe un incremento parossistico dopo l'attentato di Felice Orsini nel 1858, che servì da pretesto per aumentare la severità del regime con la Legge di sicurezza generale, che consentiva l'internamento, l'esilio o la deportazione, senza processo, di ogni persona sospetta.


Gli arricchimenti

Il silenzio della libertà fu coperto da un gran rumore di feste e di celebrazioni (e anche di grandi lavori), con il supporto della grande finanza, della grande industria e della grande proprietà terriera (nonché del clero, fortemente legato all'imperatrice Eugenia).
Il successo del dispotismo imperiale, come di qualsiasi altro, era legato alla prosperità materiale, che, sola, poteva seppellire qualunque pregiudizio rivoluzionario. Grande spazio ebbero, quindi, i piaceri materiali, la bella vita, l'accumulazione di grandi fortune il cui esempio non dava scandalo, ma anzi nutriva le speranze di molti.
Grazie alla garanzia di ordine sociale fornita dal nuovo regime al capitalismo montante, la Francia conobbe in quegli anni uno straordinario sviluppo economico: la parola d'ordine "Enrichissez-vous!" ("Arricchitevi!") lanciata da Guizot nel 1848, continuò a mantenere nel nuovo regime tutta la propria forza, e anzi l'accrebbe.
Tra il 1852 e il 1857 la cultura positivista fece miracoli: nacquero istituti di credito, sei grandi compagnie ferroviarie, i cantieri del Barone Haussmann che cambiarono il volto di Parigi ricostruendone circa il 60%.
La furia speculativa era alimentata dall'arrivo dell'oro californiano e australiano, e i consumi furono sostenuti dalla generale caduta dei prezzi del periodo 1856-1860. Lo sviluppo economico generale spingeva all'abbattimento delle barriere tariffarie, come era già accaduto in Inghilterra, e la libertà dei commerci diveniva obiettivo ideologico almeno quanto economico. Era il trionfo di una borghesia che, sollevata dalla politica grazie al dispotismo imperiale, poteva celebrare ottimisticamente i propri fasti, come fece con l'Esposizione universale di Parigi del 1855.


L'impero "riformato" (1860-1870)

La vocazione, che oggi chiameremmo populista e che egli ereditava direttamente dal bonapartismo si univa, nell'imperatore, all'avversione per le pretese politiche della borghesia: tutto andava bene finché si trattava di modernizzare, industrializzare, accumulare, ma vincoli politici Napoleone non ne tollerava.
L'opposizione politica crebbe, invece, quando l'imperatore, mantenendo intatta la propria avversione al liberalismo, assunse in economia una posizione assolutamente liberista, concludendo con la Gran Bretagna, nel gennaio 1860, un trattato commerciale che sanciva la politica di libero scambio, ed esponendo con ciò immediatamente l'industria francese alla competizione straniera.
Come primo segnale del cambiamento di passo, il 16 agosto 1859 l'imperatore aveva promulgato un’amnistia generale. L'anno successivo decise di sollevare il velo di forzato silenzio che aveva imposto alle camere e alla stampa, concedendo al parlamento un diritto di replica pubblica al discorso annuale della corona, e ai giornali di riferire il dibattito.
Queste aperture furono però utilizzate dall'opposizione per coalizzarsi: la crisi commerciale aggravata dalla Guerra di secessione americana negli Stati Uniti, l'insistenza nel voler concludere altri accordi con la Gran Bretagna per penetrare nel mercato cinese, spinsero cattolici, liberali e repubblicani a coalizzarsi in una Unione liberale, che alle elezioni del 1863 trovò un capo in Adolphe Thiers, e 40 seggi in parlamento.


Le riforme

Era evidente la necessità di equilibrare l'opposizione suscitata dalla svolta liberista. L'anima bonapartista di Napoleone III vide chiaramente la soluzione: creare l'alleanza non ancora tentata tra l'imperatore e gli avversari naturali della borghesia liberale, quelle che lui chiamava "les masses laborieuses".
La vita lavorativa e il destino degli operai e delle classi popolari, che avevano dimostrato negli anni di essere sempre pronti a sostenere il bonapartismo contro i monarchici lealisti, erano infatti rimasti completamente in balìa dei loro padroni,
Politicamente, la classe operaia si era sempre posta in maniera neutra rispetto agli eventi elettorali (come mostrava l'astensionismo di massa in occasione del plebiscito sull'impero), e il confronto diretto, quotidiano ed aspro sulle condizioni di lavoro con la borghesia padronale non consentiva alcuna possibilità di alleanza politica tra le due classi.
In questo vuoto pensò di installarsi proficuamente Napoleone III, convinto da sempre che i partiti politici, e in particolare i liberali, fossero i suoi principali nemici.
Prendendo quindi esempio dall'Inghilterra Napoleone III adottò una politica di riforme finalizzata a migliorare le prospettive delle classi lavoratrici e a riconoscere loro capacità contrattuale nei confronti dei padroni.
Con una legge del 23 maggio 1863 permise la creazione di società cooperative, il cui capitale era costituito con il risparmio degli operai, come in Inghilterra. Un anno dopo, riconobbe con un'altra legge il diritto degli operai a scioperare, e ad organizzare sindacati a tutela permanente dei propri interessi. Contemporaneamente incoraggiò le iniziative padronali dirette a favorire il risparmio ed il miglioramento delle condizioni delle classi popolari.
Forte di queste misure, Napoleone pensò di aver equilibrato ed arginato l'opposizione protezionista, sottovalutando il fatto che quella che veniva creandosi era l'opposizione politica della borghesia esclusa dalla politica.


La politica estera

Dopo il 1860, la politica estera del secondo impero incappò in diverse delusioni, che gli fecero perdere molto prestigio.
Anzitutto l'affare messicano: con l'occasione della Guerra di secessione americana e della concomitante rivoluzione messicana, Austria, Inghilterra e Francia pensarono di poter mettere sul trono del Messico l'arciduca Massimiliano d'Asburgo-Lorena (1864). Il presidente messicano Benito Juárez ordinò allora la sospensione del pagamento degli interessi verso l'estero (tra cui la Francia), così Napoleone III pensò bene di mandare il suo esercito per recuperare il credito, rovesciare la Repubblica e instaurare una monarchia con al trono Massimiliano d'Asburgo. La spedizione ebbe esito assai infelice: ritiratesi dall'affare Austria e Inghilterra, con un accordo separato, la Francia rimase sola a sostenere il nuovo imperatore austro-americano. Grazie anche all’intervento degli Stati Uniti a favore dei messicani, i repubblicani riuscirono a buttare in mare i francesi che, tornandosene in patria, conclusero malamente questa disastrosa avventura messicana.
Nell'ambito del sostegno dato ai movimenti di indipendenza nazionale, Napoleone era impegnato su più fronti: la questione italiana aveva trovato una prima conclusione con la proclamazione del Regno d'Italia del 1861, ma rimaneva aperta la questione romana, rispetto alla quale gli ambienti cattolici francesi, capeggiati dall'imperatrice Eugenia, erano fortissimamente impegnati a supporto del potere temporale. Per indebolire l'Austria, Bonaparte favorì l'unità italiana, inimicandosi i clericali senza guadagnarsi l'alleanza del nuovo Regno d'Italia e facendosi donare dal neonato regno italiano i territori di Nizza e Savoia
Restavano inoltre irrisolte la questione polacca e quella dei nazionalismi balcanici.



Proletari di tutto il mondo unitevi
Il 28 settembre 1864 venne fondata a Londra l'Associazione Internazionale dei Lavoratori: la sezione francese si costituì l'anno dopo, diretta da tre proudhoniani[1], gli operai Henri Tolain ed Ernest Fribourg, e il giornalista Charles Limousin: vi erano attivi Èmile Aubry, Antoine Bourdon, Félix Chemalé, Benoìt Malon, Charles Murat, Blaise Perrachon, Albert Richard ed Eugène Varlin. L'Associazione francese fu inizialmente tollerata dalle autorità, in parte perché non erano ancora chiare le sue finalità, poi perché si aveva fiducia in Tolain, che era in ottimi rapporti con la corte (e infatti egli finirà per tradire, come Fribourg, il movimento operaio) e infine perché, secondo le tesi di Proudhon, i suoi dirigenti sembravano limitarsi ad auspicare interventi a favore del mutualismo, a dichiararsi contro gli scioperi, contro il lavoro femminile e soprattutto contro ogni azione rivoluzionaria.
Quando però l'Internazionale protestò contro la politica di protezione dello Stato pontificio, che il 3 novembre 1867 respinse a Mentana il tentativo di attacco garibaldino con l'aiuto determinante delle truppe francesi, e organizzò con i blanquisti[2] una manifestazione a Parigi sulla tomba di Daniele Manin, il governo reagì e il 20 marzo 1868 sciolse la sezione internazionalista.
Questa si ricostituì subito: spariti Tolain e Fribourg, la diressero l'incisore Antoine Bourdon, il falegname Pierre Charbonneau, il bigiottiere Antoine Combault, lo spazzolaio Louis Granjon, il vetraio Jean-Baptiste Humbert, il cesellatore Èmile Landrin, il tintore Benoìt Malon, il doratore Gabriel Mollin e il rilegatore Eugène Varlin, che fu l’elemento di spicco. Si definirono «comunisti anti-autoritari» e proposero la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Naturalmente, già in maggio furono trascinati davanti a un tribunale, al quale Varlin dichiarò: “Se davanti alla legge voi siete i giudici e noi gli accusati, davanti alla morale siamo soltanto due partiti, voi il partito dell'ordine e dell'immobilismo, noi il partito rinnovatore, il partito socialista”. Furono condannati a tre mesi di prigione ma la sezione si ricostituì ancora e partecipò al 3° Congresso dell'Internazionale, aperto a Bruxelles il 6 settembre 1869.


La crisi

Il Secondo Impero, alla fine degli anni Sessanta, era in crisi.
La nuova esposizione universale del 1867, per giunta funestata da un attentato allo zar di Russia, non bastava a nascondere conflitti interni e tensioni all'estero.
Il populismo riformatore non dava i frutti sperati, ma anzi portava allo scoperto la radicalizzazione dei conflitti sociali, che trovavano i loro ideologi nell'anarchismo di Proudhon e nelle formulazioni marxiste.
Nelle elezioni tenute il 23 e 24 maggio 1869, il proletariato fece convergere i propri voti sull'opposizione repubblicana, che raddoppiò i consensi ottenendo tre milioni di voti, contro i 4.300.000 dei bonapartisti, che persero così quasi un milione di voti. Napoleone tentò allora la carta di sostituire una monarchia parlamentare al governo personale: ripercorrendo all'inverso la strada percorsa dal Bonaparte per proclamarsi imperatore, fece istituire con un decreto del senato dell'8 settembre 1869 la monarchia parlamentare. Primo presidente del nuovo governo fu Émile Ollivier. Il movimento operaio era in crescita malgrado divieti e repressioni, e nel 1869 si assistette a un'ondata di scioperi, spesso repressi brutalmente: a La Ricamarie, nella regione del Rodano, il 16 giugno vennero uccisi 13 minatori in sciopero e una bambina di 16 mesi; ad Aubin, nell'Aveyron, l'8 ottobre l'esercito uccise altri 14 scioperanti e il ministro della Guerra, il maresciallo Edmond Le Boef, decorò il capitano che ordinò l'eccidio.
Per ribadire il proprio ruolo, dopo la sommossa del 12 gennaio 1870 seguita all'assassinio del giornalista Victor Noir da parte di Pierre Bonaparte, un membro della famiglia imperiale, Napoleone III proclamò un nuovo plebiscito che vinse trionfalmente l'8 maggio 1870.



[1] Per proudhoniani s’intendono definire i seguaci del filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon, fondato essenzialmente sul mutualismo e sul federalismo, da molti studiosi inserito impropriamente nell’ambito di quello che Marx definì socialismo utopistico. L’anarchismo proudhoniano educa i seguaci ad una società libera e federata, di artigiani e piccoli contadini, che pone al centro i problemi del credito e del prestito ad interessi limitati. Gli elementi basilari dell’anarchismo proudhoniano sono il federalismo, il decentramento, il controllo diretto da parte dei lavoratori, abolizione della proprietà (ma non del possesso poiché reputato naturale), l'istruzione sotto il controllo degli insegnanti e dei genitori, l'istruzione legata all’apprendistato ecc.
[2] Il blanquismo fu un movimento dottrinale e attivista a favore, in primo luogo, della Repubblica e, una volta raggiunta, del comunismo in Francia, che era in vigore durante il diciannovesimo secolo, penetrò fino in fondo in modo dominante ed eccitante tra intellettuali e studenti, e fu anche caratterizzato da una forte disciplina rivoluzionaria combattiva. Deve il suo nome allo scrittore, politico e leader di questa fazione, il francese Louis Auguste Blanqui.