IL DECLINO DELL’IMPERO
Napoleone III imperatore,
ritratto
da Alexandre Cabanel (1865))
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La crisi economica che aveva
investito la Francia, raggiungendo il suo culmine nel 1847, andò attenuandosi
fino a risolversi nei primi anni Cinquanta. Iniziò allora un grande progresso
industriale. In venti anni triplicò la produzione della principale fonte
energetica di allora, il carbone, il numero delle macchine a vapore si
quintuplicò, la produzione di ferro e acciaio aumentò di tre volte, dai 3.000
chilometri di linee ferroviarie esistenti nel 1850 si passò a 16.000. L'industria
cotoniera, malgrado la lunga crisi provocata dalla guerra civile americana,
registrò l'aumento di quasi due terzi del numero dei telai. Produzioni
tradizionali, come quella della seta a Lione, andarono in crisi, ma vennero
sostituite da quelle metallurgiche, meccaniche e chimiche.
Con l'aumento della
produzione, avvennero le concentrazioni industriali, aumentarono i centri
commerciali e finanziari, si crearono nuove banche, la speculazione creò
improvvise ricchezze, il mondo degli affari si legò a quello della politica.
Molti uomini d'affari diventarono deputati e senatori.
Lo Stato bonapartista non
stette a guardare, anche se i principi economici dominanti, formalmente
liberisti, volevano che esso si astenesse dall'intervenire: invece, in presenza
di uno sviluppo industriale senza precedenti, il Secondo
Impero dette inizio al saccheggio della Francia da parte di una banda di
avventurieri della politica e della finanza, Luigi
Bonaparte tolse ai capitalisti il potere
politico con il pretesto di proteggerli dagli operai ma in compenso il suo
governo favorì la speculazione e l'attività industriale, in altre parole favorì
l'ascesa e l'arricchimento della borghesia nel suo insieme, in misura fino ad
allora inaudita.
L'autoritarismo
Allo stesso modo, da buon
populista, Napoleone
III amava presentarsi agli operai e, in generale,
alle grandi masse popolari come colui che aveva a cuore i destini della povera
gente, intanto che limitava i loro diritti politici, proibiva quelli sindacali
ed esercitava sulle loro organizzazioni un continuo controllo poliziesco. Il
suo gioco, come succede a tutti i demagoghi, se mai poté illudere qualcuno, non
poté però durare a lungo.
Infatti, la prima fase del Secondo
Impero fu fortemente autoritaria, contrassegnata dalla repressione
dell'opposizione - in particolare di quella liberale - e da un fortissimo
intervento sulla stampa, sulla politica scolastica (soppressione
dell'insegnamento della filosofia nei licei, aumento dei poteri disciplinari
dell'amministrazione scolastica), e su ogni altra espressione di autonomia
popolare.
Il suffragio universale fu
governato, oltre che dall'azione dei prefetti, da abili aggiustamenti dei
distretti elettorali, finalizzati - in provincia - ad annegare il voto liberale
nella massa conservatrice del voto rurale.
La stampa venne assoggettata
ad un sistema di cauzioni monetarie (depositi a titolo di garanzia di buona
condotta) e di "avvertimenti", cioè richieste da parte dell'autorità
di sospendere la pubblicazione di certi articoli, pena la sospensione o la
soppressione del giornale. Anche i libri furono assoggettati a censura.
Nei fatti, della povertà dei
suoi sudditi l'imperatore non si preoccupò affatto, se non nella misura in cui
essa poteva tramutarsi in rivolta e minacciare l'«ordine» sociale. Si crearono
così, secondo una logica paternalistica, società di beneficenza, mentre le
società operaie di mutuo soccorso dovevano essere approvate dal governo, che
nominava il loro presidente, e il prefetto ne nominava il segretario. Per i
disoccupati non era prevista alcuna provvidenza, poiché, si sosteneva, avrebbe
provocato «ogni genere di sciopero e di contestazione». Dal momento che furono
vietate tutte le associazioni e gli operai erano soliti ritrovarsi nelle
taverne e nei caffè, un decreto si preoccupò di individuare e all'occorrenza
chiudere immediatamente i locali «pericolosi per l'ordine pubblico».
Sul piano del controllo
individuale, fu istituito un sistema di sorveglianza poliziesca degli individui
sospetti, che ebbe un incremento parossistico dopo l'attentato
di Felice Orsini nel 1858, che servì da pretesto per aumentare la severità
del regime con la Legge di sicurezza generale, che consentiva l'internamento,
l'esilio o la deportazione, senza processo, di ogni persona sospetta.
Il silenzio della libertà fu
coperto da un gran rumore di feste e di celebrazioni (e anche di grandi
lavori), con il supporto della grande finanza, della grande industria e della
grande proprietà terriera (nonché del clero, fortemente legato all'imperatrice
Eugenia).
Il successo del dispotismo
imperiale, come di qualsiasi altro, era legato alla prosperità materiale, che,
sola, poteva seppellire qualunque pregiudizio rivoluzionario. Grande spazio
ebbero, quindi, i piaceri materiali, la bella vita, l'accumulazione di grandi
fortune il cui esempio non dava scandalo, ma anzi nutriva le speranze di molti.
Grazie alla garanzia di ordine
sociale fornita dal nuovo regime al capitalismo montante, la Francia conobbe in
quegli anni uno straordinario sviluppo economico: la parola d'ordine
"Enrichissez-vous!" ("Arricchitevi!") lanciata da Guizot
nel 1848, continuò a mantenere nel nuovo regime tutta la propria forza, e anzi
l'accrebbe.
Tra il 1852 e il 1857 la
cultura positivista fece miracoli: nacquero istituti di credito, sei grandi
compagnie ferroviarie, i cantieri del Barone Haussmann che cambiarono il volto
di Parigi ricostruendone circa il 60%.
La furia speculativa era
alimentata dall'arrivo dell'oro californiano e australiano, e i consumi furono
sostenuti dalla generale caduta dei prezzi del periodo 1856-1860. Lo sviluppo
economico generale spingeva all'abbattimento delle barriere tariffarie, come
era già accaduto in Inghilterra, e la libertà dei commerci diveniva obiettivo
ideologico almeno quanto economico. Era il trionfo di una borghesia che,
sollevata dalla politica grazie al dispotismo imperiale, poteva celebrare
ottimisticamente i propri fasti, come fece con l'Esposizione universale di
Parigi del 1855.
La vocazione, che oggi chiameremmo populista e che
egli ereditava direttamente dal bonapartismo si univa, nell'imperatore,
all'avversione per le pretese politiche della borghesia: tutto andava bene
finché si trattava di modernizzare, industrializzare, accumulare, ma vincoli
politici Napoleone non
ne tollerava.
L'opposizione politica crebbe,
invece, quando l'imperatore,
mantenendo intatta la propria avversione al liberalismo, assunse in economia
una posizione assolutamente liberista, concludendo con la Gran Bretagna, nel
gennaio 1860, un trattato commerciale che sanciva la politica di libero
scambio, ed esponendo con ciò immediatamente l'industria francese alla
competizione straniera.
Come primo segnale del
cambiamento di passo, il 16 agosto 1859 l'imperatore aveva promulgato un’amnistia generale.
L'anno successivo decise di sollevare il velo di forzato silenzio che aveva
imposto alle camere e alla stampa, concedendo al parlamento un diritto di
replica pubblica al discorso annuale della corona, e ai giornali di riferire il
dibattito.
Queste aperture furono però
utilizzate dall'opposizione per coalizzarsi: la crisi commerciale aggravata
dalla Guerra di secessione americana negli Stati Uniti, l'insistenza nel voler
concludere altri accordi con la Gran Bretagna per penetrare nel mercato cinese,
spinsero cattolici, liberali e repubblicani a coalizzarsi in una Unione
liberale, che alle elezioni del 1863 trovò un capo in Adolphe
Thiers, e 40 seggi in parlamento.
Era evidente la necessità di
equilibrare l'opposizione suscitata dalla svolta liberista. L'anima
bonapartista di Napoleone
III vide chiaramente la soluzione: creare l'alleanza
non ancora tentata tra l'imperatore e gli avversari naturali della borghesia
liberale, quelle che lui chiamava "les masses laborieuses".
La vita lavorativa e il
destino degli operai e delle classi popolari, che avevano dimostrato negli anni
di essere sempre pronti a sostenere il bonapartismo contro i monarchici
lealisti, erano infatti rimasti completamente in balìa dei loro padroni,
Politicamente, la classe
operaia si era sempre posta in maniera neutra rispetto agli eventi elettorali
(come mostrava l'astensionismo di massa in occasione del plebiscito
sull'impero), e il confronto diretto, quotidiano ed aspro sulle condizioni di
lavoro con la borghesia padronale non consentiva alcuna possibilità di alleanza
politica tra le due classi.
In questo vuoto pensò di
installarsi proficuamente Napoleone
III, convinto da sempre che i partiti
politici, e in particolare i liberali, fossero i suoi principali nemici.
Prendendo quindi esempio
dall'Inghilterra Napoleone
III adottò una politica di riforme finalizzata a
migliorare le prospettive delle classi lavoratrici e a riconoscere loro
capacità contrattuale nei confronti dei padroni.
Con una legge del 23 maggio
1863 permise la creazione di società cooperative, il cui capitale era
costituito con il risparmio degli operai, come in Inghilterra. Un anno dopo,
riconobbe con un'altra legge il diritto degli operai a scioperare, e ad
organizzare sindacati a tutela permanente dei propri interessi.
Contemporaneamente incoraggiò le iniziative padronali dirette a favorire il
risparmio ed il miglioramento delle condizioni delle classi popolari.
Forte di queste misure, Napoleone pensò di aver
equilibrato ed arginato l'opposizione protezionista, sottovalutando il fatto
che quella che veniva creandosi era l'opposizione politica della borghesia
esclusa dalla politica.
Dopo il 1860, la politica
estera del secondo impero incappò in diverse delusioni, che gli fecero perdere
molto prestigio.
Anzitutto l'affare messicano:
con l'occasione della Guerra di secessione americana e della concomitante
rivoluzione messicana, Austria, Inghilterra e Francia pensarono di poter
mettere sul trono del Messico l'arciduca Massimiliano d'Asburgo-Lorena (1864).
Il presidente messicano Benito Juárez ordinò allora la sospensione del
pagamento degli interessi verso l'estero (tra cui la Francia), così Napoleone
III pensò bene di mandare il suo esercito per recuperare
il credito, rovesciare la Repubblica e instaurare una monarchia con al trono
Massimiliano d'Asburgo. La spedizione ebbe esito assai infelice: ritiratesi
dall'affare Austria e Inghilterra, con un accordo separato, la Francia rimase
sola a sostenere il nuovo imperatore austro-americano. Grazie anche
all’intervento degli Stati Uniti a favore dei messicani, i repubblicani
riuscirono a buttare in mare i francesi che, tornandosene in patria, conclusero
malamente questa disastrosa avventura messicana.
Nell'ambito del sostegno dato
ai movimenti di indipendenza nazionale, Napoleone era impegnato su più fronti: la questione
italiana aveva trovato una prima conclusione con la proclamazione del Regno
d'Italia del 1861, ma rimaneva aperta la questione romana, rispetto alla quale
gli ambienti cattolici francesi, capeggiati dall'imperatrice Eugenia, erano
fortissimamente impegnati a supporto del potere temporale. Per indebolire
l'Austria, Bonaparte favorì l'unità italiana, inimicandosi i clericali senza guadagnarsi l'alleanza
del nuovo Regno d'Italia e facendosi donare dal neonato regno italiano i
territori di Nizza e Savoia
Restavano inoltre irrisolte la
questione polacca e quella dei nazionalismi balcanici.
Proletari di tutto il mondo unitevi |
Il 28 settembre 1864 venne fondata a Londra l'Associazione Internazionale dei Lavoratori: la sezione francese si costituì l'anno dopo,
diretta da tre proudhoniani[1], gli operai Henri Tolain ed Ernest
Fribourg, e il giornalista Charles Limousin: vi erano attivi Èmile Aubry,
Antoine Bourdon, Félix Chemalé, Benoìt
Malon, Charles Murat, Blaise Perrachon, Albert Richard ed Eugène
Varlin. L'Associazione francese fu inizialmente tollerata dalle autorità,
in parte perché non erano ancora
chiare le sue finalità, poi perché si aveva fiducia in Tolain, che era in
ottimi rapporti con la corte (e infatti egli finirà per tradire, come Fribourg,
il movimento operaio) e infine perché, secondo le tesi di Proudhon,
i suoi dirigenti sembravano limitarsi ad auspicare interventi a favore del
mutualismo, a dichiararsi contro gli scioperi, contro il lavoro femminile e
soprattutto contro ogni azione rivoluzionaria.
Quando però l'Internazionale
protestò contro la politica di protezione dello Stato pontificio, che il 3
novembre 1867 respinse a Mentana il tentativo di attacco garibaldino con
l'aiuto determinante delle truppe francesi, e organizzò con i blanquisti[2] una manifestazione a Parigi sulla tomba
di Daniele Manin, il governo reagì e il 20 marzo 1868 sciolse la sezione
internazionalista.
Questa si ricostituì subito: spariti Tolain e
Fribourg, la diressero l'incisore Antoine Bourdon, il falegname Pierre
Charbonneau, il bigiottiere Antoine Combault, lo spazzolaio Louis Granjon, il
vetraio Jean-Baptiste Humbert, il cesellatore Èmile Landrin, il tintore Benoìt
Malon, il doratore Gabriel Mollin e il rilegatore Eugène
Varlin, che fu l’elemento di spicco. Si definirono «comunisti
anti-autoritari» e proposero la collettivizzazione dei mezzi di produzione.
Naturalmente, già in maggio furono trascinati davanti a un tribunale, al quale Varlin
dichiarò: “Se davanti alla legge voi siete i giudici e noi gli accusati,
davanti alla morale siamo soltanto due partiti, voi il partito dell'ordine e
dell'immobilismo, noi il partito rinnovatore, il partito socialista”. Furono
condannati a tre mesi di prigione ma la sezione si ricostituì ancora e
partecipò al 3° Congresso dell'Internazionale,
aperto a Bruxelles il 6 settembre 1869.
Per approfondimenti sull’Associazione
Internazionale dei Lavoratori (1ª Internazionale) vi rimandiamo al seguente
link:
https://lcdpcnp.blogspot.com/2019/09/04-07-01-lassociazione-internazionale.html
La crisi
Il Secondo
Impero, alla fine degli anni Sessanta, era in crisi.
La nuova esposizione universale del 1867, per giunta
funestata da un attentato allo zar di Russia, non bastava a nascondere
conflitti interni e tensioni all'estero.
Il populismo riformatore non dava i frutti sperati,
ma anzi portava allo scoperto la radicalizzazione dei conflitti sociali, che
trovavano i loro ideologi nell'anarchismo di Proudhon
e nelle formulazioni marxiste.
Nelle elezioni tenute il 23 e 24 maggio 1869, il
proletariato fece convergere i propri voti sull'opposizione repubblicana, che
raddoppiò i consensi ottenendo tre milioni di voti, contro i 4.300.000 dei
bonapartisti, che persero così quasi un milione di voti. Napoleone
tentò allora la carta di sostituire una monarchia parlamentare al governo
personale: ripercorrendo all'inverso la strada percorsa dal Bonaparte per
proclamarsi imperatore, fece istituire con un decreto del senato dell'8
settembre 1869 la monarchia parlamentare. Primo presidente del nuovo governo fu
Émile Ollivier. Il movimento operaio era in crescita malgrado divieti e
repressioni, e nel 1869 si assistette a un'ondata di scioperi, spesso repressi
brutalmente: a La
Ricamarie, nella regione del Rodano, il 16 giugno vennero uccisi 13
minatori in sciopero e una bambina di 16 mesi; ad Aubin, nell'Aveyron, l'8
ottobre l'esercito uccise altri 14 scioperanti e il ministro della Guerra, il
maresciallo Edmond Le Boef, decorò il capitano che ordinò l'eccidio.
Per ribadire il proprio ruolo, dopo la sommossa del
12 gennaio 1870 seguita all'assassinio del giornalista Victor
Noir da parte di Pierre Bonaparte, un membro della famiglia imperiale, Napoleone
III proclamò un nuovo plebiscito che vinse trionfalmente l'8 maggio 1870.
[1] Per proudhoniani s’intendono definire i seguaci del filosofo francese Pierre-Joseph
Proudhon, fondato essenzialmente sul mutualismo e sul federalismo,
da molti studiosi inserito impropriamente nell’ambito di quello che Marx definì
socialismo utopistico. L’anarchismo proudhoniano educa i seguaci ad una società
libera e federata, di artigiani e piccoli contadini, che pone al centro i
problemi del credito e del prestito ad interessi limitati. Gli elementi
basilari dell’anarchismo proudhoniano sono il federalismo, il decentramento, il
controllo diretto da parte dei lavoratori, abolizione della proprietà (ma non
del possesso poiché reputato naturale), l'istruzione sotto il controllo degli
insegnanti e dei genitori, l'istruzione legata all’apprendistato ecc.
[2] Il blanquismo fu un movimento
dottrinale e attivista a favore, in primo luogo, della Repubblica e, una volta
raggiunta, del comunismo in Francia,
che era in vigore durante il diciannovesimo
secolo, penetrò fino in fondo in modo dominante ed eccitante tra intellettuali
e studenti, e fu anche caratterizzato da una forte disciplina rivoluzionaria
combattiva. Deve il suo nome allo
scrittore, politico e leader di questa fazione, il francese Louis
Auguste Blanqui.