LA RESA DELLA FRANCIA E LA PACE CON LA PRUSSIA
Dall'ottobre 1870 al gennaio 1871, gli abitanti dei
quartieri poveri, gli artigiani di Montmartre
e del Faubourg Sannt-Antoine, contrastavano l'assedio prussiano con un fervore
patriottico che sembrava inutile ai ceti agiati della capitale. Questi sapevano
che la capitolazione era inevitabile e che la Francia aveva ormai bisogno della -pace
per riordinare la sua economia. Gli sforzi di Gambetta
nelle province, la mobilitazione frettolosa di nuovi soldati, la retorica
barricadiera, l'insistente richiamo ai fasti giacobini del 1793 (quando tutta
la nazione in armi aveva ricacciato
gli invasori spazzando nel contempo, all'interno, le ultime vestigia del
feudalesimo) furono accolti con fastidio e scetticismo nei salotti benpensanti.
In effetti, la guerra era irrimediabilmente perduta e
le condizioni storiche mutate. A
differenza del 1793, la Francia era inferiore per
numero di abitanti, per dinamismo industriale
e per efficienza bellica alla Germania
unificata sotto lo scettro prussiano.
Il 23 gennaio, munito di un lasciapassare, Jules
Favre raggiunse Bismarck
a Versailles
per concordare le condizioni della resa. La capitolazione avvenne cinque giorni
dopo, firmando le condizioni dettate da Bismarck:
la Francia s'impegnò a mantenere a proprie spese un esercito d'occupazione
tedesco e la consegna della regione di confine dell'Alsazia e una parte della
Lorena, e doveva essere subito pagato alla Germania un primo contributo di 200
milioni di franchi. Fu deciso anche il disarmo dell'esercito, tranne una
divisione, la consegna dei fortini di Parigi, le elezioni dell'Assemblea
Nazionale entro dieci giorni. L'Assemblea avrebbe poi dovuto approvare il
trattato di pace. Bismarck
voleva anche il disarmo della Guardia
Nazionale, ma Favre
gli fece presente la difficoltà dell'opera: “Entrate a Parigi e tentate di
disarmarli voi stessi” gli replicò. Così, la popolazione parigina mantenne
le armi.
Il 28 gennaio 1871 Parigi, affamata, capitolò e
concluse un armistizio nonostante le inumane pretese di Bismarck.
I forti furono consegnati, le trincee disarmate, le armi dei reggimenti di
linea e della guardia mobile consegnate, ed essi considerati come prigionieri
di guerra. Ma la Guardia
Nazionale mantenne le sue armi e i suoi cannoni, e di fronte ai vincitori
si considerò in stato di armistizio, mentre questi non osavano entrare in
Parigi in trionfo. Osarono occupare soltanto un piccolo angolo di Parigi,
consistente in parte in parchi pubblici, e anche questo solo per alcuni giorni
e durante questo tempo essi, che avevano stretto d'assedio Parigi per 131
giorni, furono a loro volta assediati dagli operai parigini armati, i quali
vigilavano accuratamente perché nessun “prussiano” varcasse i ristretti confini
di quel pezzo di terreno ceduto ai conquistatori stranieri. Tale era il
rispetto che gli operai parigini ispiravano all'esercito davanti al quale tutte
le truppe dell'impero avevano deposto le armi; e i grandi proprietari fondiari
prussiani, che erano venuti per prendersi la loro rivincita nel centro stesso
della rivoluzione, dovettero starsene pieni di riguardo, e fare il saluto
proprio alla rivoluzione armata!
Non c’era davvero alcun altro mezzo di salvare la
Francia? Si era veramente tentato tutto? Se già prima anarchici, giacobini e
rivoluzionari blanquisti avevano accusato il governo di tradimento, ora, dopo
l'armistizio queste accuse diventano molto più plausibili di prima. Migliaia di
operai e di piccolo-borghesi cominciarono a prestar orecchio a quegli
accusatori domandandosi se essi non avessero avuto ragione sin dal primo
momento nel dubitare del tradimento della classe borghese e del governo. Sì
andava chiarendo che la borghesia non era stata in grado nemmeno di difendere
il territorio francese e che essa, nel dilemma di scegliere tra il dovere
nazionale e l’interesse di classe, non avesse esitato un momento ad optare in
favore di quest’ultimo. Il governo avrebbe potuto continuare la guerra ma per
far ciò avrebbe dovuto armare completamente la «plebe» e gli operai, non essendo
più sufficiente la sola Guardia
Nazionale. Far ciò, però, significava suicidarsi come classe. I prussiani,
si pensava, erano i nemici di oggi, ma avrebbero potuto essere gli amici o gli
alleati contro la rivoluzione di domani. Il governo provvisorio, insomma,
temeva un'insurrezione, e tale timore contribuì a fargli affrettare la
conclusione dell'armistizio.
Le masse parigine non avevano ancora chiara coscienza
delle intenzioni di Thiers,
ma, avevano come un presentimento, un senso di diffidenza che aspettava solo
una spinta per divenire vero e proprio odio di classe; il proletariato allora
avrebbe compreso come il nemico principale non fosse la Prussia, ma la
borghesia indipendentemente dalla nazione di appartenenza. Si era ancora fermi
ad un punto di vista nazionalistico e tutto era stato fatto, per difendere la
Francia dall'aggressore esterno.
La borghesia francese, desiderosa di chiudere in
fretta l'infelice avventura del vecchio Regime per riprendere in tranquillità i
propri consueti affari, sembrò accettare senza proteste le gravi condizioni
dell'armistizio, con qualche eccezione nelle fila dei progressisti, di cui si
resero portavoce Clemenceau
e Gambetta,
il quale arrivò a proporsi come temporaneo dittatore allo scopo di guidare la
resistenza armata in ogni regione della Francia. Ma fu un fuoco di paglia e già
il 6 febbraio il democratico Gambetta
andò ad «esiliarsi» in Spagna nella pittoresca località termale di San
Sebastián. Le elezioni legislative imposte da Bismarck
si tennero a suffragio universale maschile l'8 febbraio 1871. Come al solito,
in Francia, il voto rurale fu determinante e i contadini votarono in massa per
i candidati reazionari e conservatori, che propagandavano la pace e l'«ordine»
contro i «rossi» pericolosi sovvertitori e fautori della continuazione della
guerra. La classe contadina (l'unica classe umile che abbia beneficiato della
rivoluzione del 1789 accedendo alla piccola proprietà) era animata da rinnovato
zelo cattolico e detestava tutto ciò che era sospetto di ateismo, di socialismo
e di repubblicanesimo. Era la classe che aveva fornito al Papa gli zuavi
pontifici e che puntellava, con la forza del numero, la conservazione sociale e
politica francese.
Nella nuova Assemblea nazionale almeno 400, dei 675
componenti, erano monarchici e 230 di essi provenivano da famiglie
aristocratiche: signori di rango, signorotti, magistrati, grandi industriali,
commercianti importanti, avvocati ben conosciuti e professori di fama, avevano
in comune l'essere tutti difensori dell'ordine sociale costituito e tutti
facevano riferimento più volentieri al passato che all'avvenire. Il resto era
formato da liberali e repubblicani moderati, mentre modesta era la
rappresentanza dei democratici e dei popolari, tra loro: Louis
Blanc e Victor
Hugo. Anche Garibaldi
venne eletto a Parigi, in segno di simpatia e di riconoscenza per l'aiuto
prestato durante la guerra; ma l'Assemblea, riunita per la prima volta il 13
febbraio a Bordeaux, rifiutò di convalidare il mandato di Garibaldi
perché straniero, e il 15 febbraio soppresse lo stipendio delle guardie
nazionali.
Il 19 febbraio venne eletto un
governo di moderati e di orléanisti, a cui capo fu Adolphe
Thiers.
“Maestro di piccole truffe
di Stato, virtuoso dello spergiuro e del tradimento, artista in tutti i bassi
stratagemmi, nelle astuzie furbesche e nelle vili perfidie delle lotte di
partito [...] con pregiudizi di classe al posto delle idee e con la
vanità al posto del cuore; con una vita privata altrettanto infame quanto è
odiosa la sua vita pubblica (Karl Marx:
La
guerra civile in Francia)”: questo
è l'uomo che guiderà la lotta della borghesia francese contro il proletariato
di Parigi. Non ci volle molto, ad un siffatto uomo politico, per capire che le
rivendicazioni della plebe parigina erano incompatibili con certi obiettivi.
Bisognava liquidare al più presto le bardature giacobine, rassicurare i
possidenti ai quali si doveva chiedere di sottoscrivere il prestito per pagare
l'indennità di miliardi di franchi imposta da Bismarck,
fare in modo che le manifatture riprendessero a produrre e che il bilancio
della Francia stesse in ordine come quello delle singole aziende. La «vile
moltitudine» (così Thiers
definiva la plebe parigina) doveva rientrare nella legalità.
Le trattative ripresero già il
21 febbraio, Thiers
e Bismarck
trovarono un accordo il 26, e il 1° marzo l'Assemblea ratificò in via
preliminare il trattato di pace con 546 voti a favore, 107 contrari (i deputati
di Parigi, Marsiglia
e Lione) e
23 astenuti, malgrado le proteste dei deputati dell'Alsazia e della Lorena.
Infatti, l'Alsazia e un terzo della Lorena passarono, come previsto, alla
Germania che percepì dalla Francia anche la gigantesca somma di cinque miliardi
di franchi a titolo di indennità di guerra.
I 35 deputati dei territori ceduti di Alsace-Moselle lasciano la riunione, la
sera stessa, il vicesindaco di Strasburgo, Émile Kuss, morì per un malessere
cardiaco.
Thiers
ratificò, senza neanche discuterli, i preliminari di pace, così da avere le mani
libere per combattere contro Parigi. In effetti chi doveva pagare il conto? “Era
solo con l'abbattimento violento della repubblica che gli accaparratori della
ricchezza potevano sperare di riversare sulle spalle dei suoi produttori il
costo di una guerra che essi stessi, gli accaparratori, avevano provocato (Karl
Marx)”.
Vi era un solo ostacolo
affinché questo piano venisse portato a compimento: Parigi. Il disarmo della
città si imponeva come una necessità vitale.
Il voto dei 400 «rurali» non
pesò soltanto a favore della pace: l'Assemblea decise infatti di stabilirsi
nella cittadina di Versailles,
culla della monarchia e del legittimismo, recando un affronto alla gloriosa Parigi che ebbe il torto di
essere popolata da 600.000 operai, molti dei
quali in armi sotto l'uniforme della Guardia
Nazionale. Persino i borghesi parigini, in questa circostanza, brontolarono contro Thiers:
Dei contrari all'accordo,
parecchi si dimisero dall'Assemblea, tra cui Victor
Hugo. Per i «pacificatori», si trattò subito dopo di affrontare la seconda
questione all'ordine del giorno: la sottomissione di Parigi, ora libera
dall'assedio, e il 10 marzo l'Assemblea, come già deciso, si trasferì a Versailles
per condurre, dal palazzo reale dei Borboni, l'attacco decisivo alla capitale.
Quello stesso giorno
l'Assemblea prese la decisione di abolire la moratoria sugli affitti e su ogni
tipo di pagamento, una misura, quest'ultima, che colpì particolarmente il commercio
e l'artigianato, già provati dal lungo assedio. Persino il quotidiano
conservatore Le Rappel
protestò contro queste decisioni, giudicandole «chimeriche» e frutto
dell'ignoranza della situazione in cui versava la capitale.
In realtà l'Assemblea e il governo sapevano benissimo quello che
facevano. Unitamente alla decisione del precedente febbraio di abolire la paga
delle guardie nazionali, questi provvedimenti, che favorirono proprietari e
banchieri e danneggiarono operai e piccola borghesia, da una parte mostrarono
quale particolare spirito di classe animò la maggioranza dell'Assemblea,
dall'altra resero possibile (diversamente da quanto era accaduto nel 1848)
il saldarsi di un'alleanza politica tra operai e una parte della piccola
borghesia parigina.Otto von Bismarck, a sinistra, con Favre e Thiers, seduto, al trattato di pace |