giovedì 22 novembre 2018

01-15 - La resa della Francia e la pace con la Prussia

LA RESA DELLA FRANCIA E LA PACE CON LA PRUSSIA



Dall'ottobre 1870 al gennaio 1871, gli abitanti dei quartieri poveri, gli artigiani di Montmartre e del Faubourg Sannt-Antoine, contrastavano l'assedio prussiano con un fervore patriottico che sembrava inutile ai ceti agiati della capitale. Questi sapevano che la capitolazione era inevitabile e che la Francia aveva ormai bisogno della -pace per riordinare la sua economia. Gli sforzi di Gambetta nelle province, la mobilitazione frettolosa di nuovi soldati, la retorica barricadiera, l'insistente richiamo ai fasti giacobini del 1793 (quando tutta la nazione in armi aveva ricacciato gli invasori spazzando nel contempo, all'interno, le ultime vestigia del feudalesimo) furono accolti con fastidio e scetticismo nei salotti benpensanti.
In effetti, la guerra era irrimediabilmente perduta e le condizioni storiche mutate. A differenza del 1793, la Francia era inferiore per numero di abitanti, per dinamismo industriale e per efficienza bellica alla Germania unificata sotto lo scettro prussiano.
Il 23 gennaio, munito di un lasciapassare, Jules Favre raggiunse Bismarck a Versailles per concordare le condizioni della resa. La capitolazione avvenne cinque giorni dopo, firmando le condizioni dettate da Bismarck: la Francia s'impegnò a mantenere a proprie spese un esercito d'occupazione tedesco e la consegna della regione di confine dell'Alsazia e una parte della Lorena, e doveva essere subito pagato alla Germania un primo contributo di 200 milioni di franchi. Fu deciso anche il disarmo dell'esercito, tranne una divisione, la consegna dei fortini di Parigi, le elezioni dell'Assemblea Nazionale entro dieci giorni. L'Assemblea avrebbe poi dovuto approvare il trattato di pace. Bismarck voleva anche il disarmo della Guardia Nazionale, ma Favre gli fece presente la difficoltà dell'opera: “Entrate a Parigi e tentate di disarmarli voi stessi” gli replicò. Così, la popolazione parigina mantenne le armi.
Il 28 gennaio 1871 Parigi, affamata, capitolò e concluse un armistizio nonostante le inumane pretese di Bismarck. I forti furono consegnati, le trincee disarmate, le armi dei reggimenti di linea e della guardia mobile consegnate, ed essi considerati come prigionieri di guerra. Ma la Guardia Nazionale mantenne le sue armi e i suoi cannoni, e di fronte ai vincitori si considerò in stato di armistizio, mentre questi non osavano entrare in Parigi in trionfo. Osarono occupare soltanto un piccolo angolo di Parigi, consistente in parte in parchi pubblici, e anche questo solo per alcuni giorni e durante questo tempo essi, che avevano stretto d'assedio Parigi per 131 giorni, furono a loro volta assediati dagli operai parigini armati, i quali vigilavano accuratamente perché nessun “prussiano” varcasse i ristretti confini di quel pezzo di terreno ceduto ai conquistatori stranieri. Tale era il rispetto che gli operai parigini ispiravano all'esercito davanti al quale tutte le truppe dell'impero avevano deposto le armi; e i grandi proprietari fondiari prussiani, che erano venuti per prendersi la loro rivincita nel centro stesso della rivoluzione, dovettero starsene pieni di riguardo, e fare il saluto proprio alla rivoluzione armata!
Non c’era davvero alcun altro mezzo di salvare la Francia? Si era veramente tentato tutto? Se già prima anarchici, giacobini e rivoluzionari blanquisti avevano accusato il governo di tradimento, ora, dopo l'armistizio queste accuse diventano molto più plausibili di prima. Migliaia di operai e di piccolo-borghesi cominciarono a prestar orecchio a quegli accusatori domandandosi se essi non avessero avuto ragione sin dal primo momento nel dubitare del tradimento della classe borghese e del governo. Sì andava chiarendo che la borghesia non era stata in grado nemmeno di difendere il territorio francese e che essa, nel dilemma di scegliere tra il dovere nazionale e l’interesse di classe, non avesse esitato un momento ad optare in favore di quest’ultimo. Il governo avrebbe potuto continuare la guerra ma per far ciò avrebbe dovuto armare completamente la «plebe» e gli operai, non essendo più sufficiente la sola Guardia Nazionale. Far ciò, però, significava suicidarsi come classe. I prussiani, si pensava, erano i nemici di oggi, ma avrebbero potuto essere gli amici o gli alleati contro la rivoluzione di domani. Il governo provvisorio, insomma, temeva un'insurrezione, e tale timore contribuì a fargli affrettare la conclusione dell'armistizio.
Le masse parigine non avevano ancora chiara coscienza delle intenzioni di Thiers, ma, avevano come un presentimento, un senso di diffidenza che aspettava solo una spinta per divenire vero e proprio odio di classe; il proletariato allora avrebbe compreso come il nemico principale non fosse la Prussia, ma la borghesia indipendentemente dalla nazione di appartenenza. Si era ancora fermi ad un punto di vista nazionalistico e tutto era stato fatto, per difendere la Francia dall'aggressore esterno.
La borghesia francese, desiderosa di chiudere in fretta l'infelice avventura del vecchio Regime per riprendere in tranquillità i propri consueti affari, sembrò accettare senza proteste le gravi condizioni dell'armistizio, con qualche eccezione nelle fila dei progressisti, di cui si resero portavoce Clemenceau e Gambetta, il quale arrivò a proporsi come temporaneo dittatore allo scopo di guidare la resistenza armata in ogni regione della Francia. Ma fu un fuoco di paglia e già il 6 febbraio il democratico Gambetta andò ad «esiliarsi» in Spagna nella pittoresca località termale di San Sebastián. Le elezioni legislative imposte da Bismarck si tennero a suffragio universale maschile l'8 febbraio 1871. Come al solito, in Francia, il voto rurale fu determinante e i contadini votarono in massa per i candidati reazionari e conservatori, che propagandavano la pace e l'«ordine» contro i «rossi» pericolosi sovvertitori e fautori della continuazione della guerra. La classe contadina (l'unica classe umile che abbia beneficiato della rivoluzione del 1789 accedendo alla piccola proprietà) era animata da rinnovato zelo cattolico e detestava tutto ciò che era sospetto di ateismo, di socialismo e di repubblicanesimo. Era la classe che aveva fornito al Papa gli zuavi pontifici e che puntellava, con la forza del numero, la conservazione sociale e politica francese.
Nella nuova Assemblea nazionale almeno 400, dei 675 componenti, erano monarchici e 230 di essi provenivano da famiglie aristocratiche: signori di rango, signorotti, magistrati, grandi industriali, commercianti importanti, avvocati ben conosciuti e professori di fama, avevano in comune l'essere tutti difensori dell'ordine sociale costituito e tutti facevano riferimento più volentieri al passato che all'avvenire. Il resto era formato da liberali e repubblicani moderati, mentre modesta era la rappresentanza dei democratici e dei popolari, tra loro: Louis Blanc e Victor Hugo. Anche Garibaldi venne eletto a Parigi, in segno di simpatia e di riconoscenza per l'aiuto prestato durante la guerra; ma l'Assemblea, riunita per la prima volta il 13 febbraio a Bordeaux, rifiutò di convalidare il mandato di Garibaldi perché straniero, e il 15 febbraio soppresse lo stipendio delle guardie nazionali.
Il 19 febbraio venne eletto un governo di moderati e di orléanisti, a cui capo fu Adolphe Thiers.
Maestro di piccole truffe di Stato, virtuoso dello spergiuro e del tradimento, artista in tutti i bassi stratagemmi, nelle astuzie furbesche e nelle vili perfidie delle lotte di partito [...] con pregiudizi di classe al posto delle idee e con la vanità al posto del cuore; con una vita privata altrettanto infame quanto è odiosa la sua vita pubblica (Karl Marx: La guerra civile in Francia)”: questo è l'uomo che guiderà la lotta della borghesia francese contro il proletariato di Parigi. Non ci volle molto, ad un siffatto uomo politico, per capire che le rivendicazioni della plebe parigina erano incompatibili con certi obiettivi. Bisognava liquidare al più presto le bardature giacobine, rassicurare i possidenti ai quali si doveva chiedere di sottoscrivere il prestito per pagare l'indennità di miliardi di franchi imposta da Bismarck, fare in modo che le manifatture riprendessero a produrre e che il bilancio della Francia stesse in ordine come quello delle singole aziende. La «vile moltitudine» (così Thiers definiva la plebe parigina) doveva rientrare nella legalità.
Le trattative ripresero già il 21 febbraio, Thiers e Bismarck trovarono un accordo il 26, e il 1° marzo l'Assemblea ratificò in via preliminare il trattato di pace con 546 voti a favore, 107 contrari (i deputati di Parigi, Marsiglia e Lione) e 23 astenuti, malgrado le proteste dei deputati dell'Alsazia e della Lorena. Infatti, l'Alsazia e un terzo della Lorena passarono, come previsto, alla Germania che percepì dalla Francia anche la gigantesca somma di cinque miliardi di franchi a titolo di indennità di guerra. I 35 deputati dei territori ceduti di Alsace-Moselle lasciano la riunione, la sera stessa, il vicesindaco di Strasburgo, Émile Kuss, morì per un malessere cardiaco.
Thiers ratificò, senza neanche discuterli, i preliminari di pace, così da avere le mani libere per combattere contro Parigi. In effetti chi doveva pagare il conto? “Era solo con l'abbattimento violento della repubblica che gli accaparratori della ricchezza potevano sperare di riversare sulle spalle dei suoi produttori il costo di una guerra che essi stessi, gli accaparratori, avevano provocato (Karl Marx)”.
Vi era un solo ostacolo affinché questo piano venisse portato a compimento: Parigi. Il disarmo della città si imponeva come una necessità vitale.
Il voto dei 400 «rurali» non pesò soltanto a favore della pace: l'Assemblea decise infatti di stabilirsi nella cittadina di Versailles, culla della monarchia e del legittimismo, recando un affronto alla gloriosa Parigi che ebbe il torto di essere popolata da 600.000 operai, molti dei quali in armi sotto l'uniforme della Guardia Nazionale. Persino i borghesi parigini, in questa circostanza, brontolarono contro Thiers:
Dei contrari all'accordo, parecchi si dimisero dall'Assemblea, tra cui Victor Hugo. Per i «pacificatori», si trattò subito dopo di affrontare la seconda questione all'ordine del giorno: la sottomissione di Parigi, ora libera dall'assedio, e il 10 marzo l'Assemblea, come già deciso, si trasferì a Versailles per condurre, dal palazzo reale dei Borboni, l'attacco decisivo alla capitale.
Quello stesso giorno l'Assemblea prese la decisione di abolire la moratoria sugli affitti e su ogni tipo di pagamento, una misura, quest'ultima, che colpì particolarmente il commercio e l'artigianato, già provati dal lungo assedio. Persino il quotidiano conservatore Le Rappel protestò contro queste decisioni, giudicandole «chimeriche» e frutto dell'ignoranza della situazione in cui versava la capitale.
In realtà l'Assemblea e il governo sapevano benissimo quello che facevano. Unitamente alla decisione del precedente febbraio di abolire la paga delle guardie nazionali, questi provvedimenti, che favorirono proprietari e banchieri e danneggiarono operai e piccola borghesia, da una parte mostrarono quale particolare spirito di classe animò la maggioranza dell'Assemblea, dall'altra resero possibile (diversamente da quanto era accaduto nel 1848) il saldarsi di un'alleanza politica tra operai e una parte della piccola borghesia parigina.
Otto von Bismarck, a sinistra, con Favre e Thiers, seduto, al trattato di pace