AMILCARE
CIPRIANI
Avventuriero dal cuore grande, Amilcare Cipriani
ignorò onori e benefici. Solo la lotta per gli oppressi in tutto il mondo fu
importante per lui.
Amilcare Cipriani nacque a Porto d'Anzio, il 18
ottobre 1844, ma la sua famiglia si trasferì a Rimini quando aveva appena
quindici giorni, fu un garibaldino, un internazionalista, un Comunardo
e un anarco-socialista italiano. Nasce da Felice Cipriani e Angela Petriconi,
poi il padre proveniente da una famiglia originaria di Rimini fu costretto a
causa delle sue simpatie antipapali a rimpatriare quando Amilcare aveva appena
quindici giorni.
Trascorse l'infanzia in una scuola gestita da
religiosi, che disprezzavano il temperamento ribelle del ragazzo (come scrisse
Guido Nozzoli[1] in una biografia giornalistica nel 1954,
Cipriani fu battezzato dal padre «con una manciata di polvere da sparo»).
Scappò di casa per arruolarsi nell'esercito
piemontese, era il 1859, e lui non era ancora quindicenne quando, nascondendo
la vera età, partì volontario nel 1859 e combatté «come un demone» a San
Martino, dove per il suo valore fu promosso sergente e assegnato al 57º
Reggimento di Fanteria della Brigata Ravenna, di stanza a Tortona.
Con l'appoggio dell'esercito francese alle truppe
piemontesi, gli austriaci vennero sconfitti a Palestro, Magenta e Solferino. Il
giovane Cipriani partecipò a questo apertura di conflitto del 1859. Pochi mesi
dopo disertò per raggiungere in Sicilia Garibaldi
e i Mille nel famoso 1860.
Nella battaglia di Milazzo, 17 - 24 luglio 1860, si
distinse per il suo coraggio e venne nominato sottotenente.
Riammesso nell'esercito regio partecipò alle
operazioni contro i briganti abruzzesi. Distaccato a Palermo, nel 1862 disertò
nuovamente, alle testa di 35 commilitoni e raggiunse Garibaldi
al bosco della Ficuzza[2] per seguirlo nell'avventura d'Aspromonte
(Calabria).
Fatto prigioniero il 29 agosto 1862, durante la
battaglia dell’Aspromonte, quando l'esercito regio fermò il tentativo di Giuseppe
Garibaldi e dei suoi volontari di completare una marcia dalla Sicilia verso
Roma e scacciarne papa Pio IX, riuscì a fuggire e si imbarcò per
la Grecia, sopravvivendo (soltanto lui ed il capitano della nave) ad un
naufragio.
Raggiunta la Penisola ellenica, Cipriani costituì il
"Club Democratico" e con Emanouil Dadaoglou[3],
nel 1862, organizzò un gruppo violentemente ostile al Re Otto di Grecia e
combatté contro i realisti. Espulso, e non potendo tornare in Italia per non
finire in carcere, si recò in Egitto dove s'impiegò al Banco Dervieux e lavorò
come membro di una spedizione scientifica all'esplorazione delle fonti del
Nilo.
In vista della terza guerra d'indipendenza, nel 1866
il "disertore" tornò in Italia dove era appena scoppiata la guerra
tra Italia e Austria. Tornò a combattere tra le file di Garibaldi,
costituendo la «legione egiziana» senza assumerne il comando, e partì per
Brescia dove si arruolò ancora con Garibaldi
nel Corpo Volontari Italiani. Soldato semplice del 1º Reggimento combatté nella
battaglia di Monte Suello e in quella di Condino.
Le autorità italiane minacciavano di arrestarlo per
diserzione. Decise quindi di chiudere questa fase, corse a Candia, nell'isola
di Creta, a dar manforte agli insorti che cercavano di liberarsi dal giogo
ottomano. A Candia incontrò Flourens,
un personaggio cavalleresco che gli somigliava in molti modi. Diventarono amici
inseparabili.
Nuovamente in Egitto, fu coinvolto in una rissa: si
difese uccidendo tre persone, un connazionale e due poliziotti. Era il 12
settembre 1867.
Da clandestino partì alla volta di Londra. Il periodo
londinese, è forse quello più tranquillo della sua vita. «Si occupò come
fotografo apprendista nello studio creato da Leonida e da Vincenzo Caldesi»
anche per aiutare i compatrioti esuli. Ritrasse la regina Vittoria e la scena
della foto scattata alla regina Vittoria, è al centro di un racconto che lo
stesso Cipriani fece al giornalista Luigi Campolonghi, uno dei suoi suo
biografi citato dallo scrittore Vittorio Emiliani: «Chiacchierava con le
persone del seguito, scherzava, s'agitava, ed io consumavo inutilmente tutte le
lastre con tanto amore e con tanta fatica preparate». Tenuto a bada dai
titolari dello studio, Cipriani «per un bel pezzo» tace, poi «impazientito»
sbottò rimproverando la regina: «Madame, si vous ne restez pas tranquille, je
ne ferai pas votre portrait! (Signora, se non state tranquilla, non farò più il
vostro ritratto!)». «Quel ritratto - aggiunge Emiliani - eseguito dall'uomo
"più rosso d'Italia", deve certamente trovarsi nelle collezioni
regali a Buckingham Palace». Nella capitale inglese conobbe Giuseppe
Mazzini e fece parte della 1ª Internazionale; fu scattata in segno di amicizia a Mazzini la celebre
immagine del repubblicano che meditativa. Proprio per aderire ad un disegno di
Mazzini nel 1870 varcò la Manica per accorrere ai moti rivoluzionari, di
Toscana, di Lombardia, di Romagna e di «accendere dei focolai di guerriglia in
Lucchesia[4]», ma la Francia lo intercettò e lo
arrestò: era imputato di complotto (il complotto Blois-Cipriani contro la vita
di Napoleone
III). Espulso fuggì a
Lugano.
Tornò a Londra dove gli pervenne un messaggio
dell'amico Gustave
Flourens: gli chiedeva di raggiungerlo a Parigi. Il secondo periodo
londinese è anche quello che matura in Cipriani il credo rivoluzionario per
realizzare la giustizia di cui sente parlare da Marx ed
Engels che conosce personalmente: inizia così la sua distanza politica nei
confronti di Mazzini.
Il 19 luglio 1870, la Francia dichiarò guerra
alla Prussia. Il rapido avanzamento degli eserciti di Bismarck non incontrò
alcuna resistenza seria e Bismarck
entrò in Francia. Cipriani volle difendere il paese della Dichiarazione dei
diritti dell'Uomo e del cittadino, disse addio alla compagna, Adolfina Rouet
con la quale ebbe una bambina (Fulvia), e si recò a Parigi in difesa del popolo
e dell'onore Francese.
Arrivò a Parigi il 5 settembre 1870, il giorno dopo
la caduta
del Secondo Impero. Venne incorporato nel 19° reggimento come tenente
colonnello. Si oppose rapidamente all'incompetenza del governo
di difesa nazionale e il 31
ottobre 1870 partecipò alla rivolta popolare contro i rappresentanti della
borghesia che temevano il proletariato più dei prussiani.
I parigini assediati soffrivano freddo e fame. La Guardia
Nazionale era impegnata in sortite non necessarie e mortali. Il 19 gennaio
1871, Amilcare Cipriani si distinse per il suo coraggio a Montretout. La
vittoria sui prussiani non venne sfruttata dal generale Trochu
che suonò la ritirata. Il 21 gennaio 1871, Flourens,
imprigionato a Mazas, fu
liberato da Cipriani a capo di un piccolo commando. Il 28 gennaio, si oppose
fortemente alla resa di Parigi.
Il 18
marzo con un'insurrezione popolare si formò la Comune di
Parigi, Cipriani si diede anima e corpo al gran sogno e partecipò alla
difesa della Comune.
Formò un corpo di 80 battaglioni della Guardia
Nazionale. Arruolato nel 1° battaglione dei tiratori, riprese una trincea
caduta in mano dei prussiani, combatté in altre venti battaglie, a Champigny, a
Montretout, e così gagliardamente da venirgli offerta la croce della legion
d'onore che egli rifiutò con questa lettera: “Grazie dell'onore. Non accetto
la croce: prima di tutto perchè l'accettarla sarebbe contrario alle mie idee, e
poi perchè i garibaldini non accettano simili onori se non quando piantano le
tende nel campo nemico”. Fatto comandante della Piazza Vendôme, poi
colonnello di Stato Maggiore, con Flourens
dovette uscire da Parigi per combattere i versagliesi e partecipare alla
sfortunata sortita del 3
aprile. Osservò impotente l'assassinio di Flourens
da parte del capitano della gendarmeria di Versailles
Desmarets.
Venne arrestato da questi e fu trascinato a Versailles,
fatto il sommario processo, fu condannato a morte dal 19°
Consiglio di Guerra il 21 gennaio 1872. Per un caso straordinario, o
chissà, fossero stanchi di sangue o altro, di lì a poco gli commutarono la pena
in deportazione perpetua; e il 3 maggio del 1872, con altri sessanta compagni
di sventura, imbarcato su un pessimo bastimento, la nave Danae, fu spedito in Nuova
Caledonia (come Louise
Michel). Durante la navigazione, si rifiutò di fare un lavoro affidatogli;
venne messo in prigione per 57 giorni, incatenato contro un muro, le caviglie
fissate nella barre de justice[5].
Amnistiato
nel 1879, venne rimpatriato con la nave Tage. Nel 1880 andò a Roma e frequentò
circoli anarchici. Tornò in Francia ma venne immediatamente espulso; si spostò
in Svizzera, dove conobbe Carlo Cafiero.
Nel gennaio 1881 ritornò in Italia. Arrivò in treno a
Rimini dove sperava di incontrare il padre Felice, gravemente ammalato. Sua
madre era morta di crepacuore nei giorni della Comune.
Come racconta Vittorio Emiliani in «Libertari di Romagna», Cipriani “non
fa nemmeno a tempo a scendere dal predellino della vettura ferroviaria che lo
arrestano” con l’accusa di «cospirazione contro la sicurezza dello stato»;
nel 1882, ad Ancona, fu processato per i fatti egiziani e condannato a
vent'anni di lavori forzati da scontare a Portolongone. La sua fama rimase
immutata e nel 1886, alle elezioni politiche, fu presentata la sua «candidatura
di protesta» nei collegi di Ravenna e Forlì, dove risultò eletto
plebiscitariamente. Nel 1888, grazie anche alle pressioni popolari, il nuovo
processo sui fatti egiziani lo assolse da ogni accusa, fu rilasciato, ma fu
bandito dall'Italia e tornò in Francia.
Si recò nuovamente a Parigi dove riprese le sue
attività politiche e sociali. Fondò l'«Unione dei popoli latini», si avvicinò
alle posizioni socialiste rivoluzionarie e anarchiche, collaborando attivamente
a quotidiani e periodici, tra cui Le Plébéien (Il Plebeo). Durante il congresso
di Zurigo della 2ª Internazionale, Cipriani si dimise dal suo mandato per
protesta e contro l’esclusione degli anarchici. Nel 1891 partecipò come
delegato ai lavori del Partito Socialista Rivoluzionario Anarchico.
Nel 1897, mente i rapporti con il nazionalista
Mazzini si erano oramai completamente deteriorati, si unì volontario nella
legione irregolare di Ricciotti
Garibaldi (figlio di Giuseppe
Garibaldi), con alcuni dei capi dei Fasci Siciliani, Nicola Barbato e
Giuseppe De Felice Giuffrida, a fianco dei Greci contro i Turchi Ottomani nella
Guerra greco-turca (1897) per la liberazione di dell'isola di Creta dove venne
ferito alle gambe a Larissa (Grecia).
Dopo mesi di sofferenza, al suo rientro in Italia
venne imprigionato per altri tre anni nel luglio 1898. Tornò in Francia. Nel
1909, grazie al suo lavoro di redattore al giornale l’Humanité, visse
modestamente in una piccola stanza in Avenue de Clichy.
Dal 1911 in Italia i suoi scritti divennero illegali
perché considerati sovversivi. Nel 1914, ancora una volta, fu eletto, come
forma di protesta, ma non poté sedere in Parlamento per essersi rifiutato di
prestare il rituale giuramento al Re.
Morì a Parigi il 2 maggio 1918.
In omaggio ad Amilcare Cipriani, il comune di
Saint-Ouen ha dato il nome a una delle strade della città.
Citazioni
«I giornali monarchici e la stupidità umana
ripetono che la morte di Umberto ha dolorosamente colpito al cuore tutti gli
italiani. Non è vero; eccone la prova. Il giorno dopo la morte di re Umberto i
due deputati eletti in Italia furono dei socialisti. I loro avversari
elettorali dimostrarono invano che la idea della trasformazione economica,
propugnata dai collettivisti, i comunisti e gli anarchici, aveva convinto Bresci
dell’urgenza del regicidio. Il popolo votò pei rappresentanti i principi
rivoluzionari a costo di dare ancora ragione a dei fanatici di abbattere idoli
umani [...]. In seguito, ciò che fu sintomatico fu quanto si produsse in Roma
durante i funerali di re Umberto: i principi che seguivano il feretro del re,
spaventati, ad un dato momento, sguainarono le spade per proteggere il loro
sovrano. Da ciò non si può concludere che una rivoluzione che cambi il regime
politico della penisola, sia imminente pel fatto che, contrariamente a ciò che
si è detto, la morte del re non ha incontrato l’universale riprovazione [...].
Tuttavia si può fare osservare che un cambiamento di regime nell’Italia
contemporanea non sarebbe cosa nuova: vi sono dei precedenti (Amilcare Cipriani)».
Guglielmo Natalini ha pubblicato nel 1987 la
biografia «Amilcare Cipriani, la vita come rivoluzione», edizione Firenze
Libri, dalla quale è tratto un brano dell'intervista di Giuseppe Prezzolini ad
Amilcare Cipriani a Parigi, pubblicata sull'«Avanti» il 3 gennaio 1914: «È
proprio lui, tutto nero vestito. Il viso è quello della sua età, segnato dalla
pace dei vecchi, il pelo s'accresce sulla faccia e sulle falangi delle dita e
sul dorso della mano, tradisce la forza di quel corpo; il pelo non s'è fatto
ancor bianco, non è tutto bianco, nella testa covano ancora molte strisce nere.
Come è magro, Dio mio quel corpo! Come regge il peso di sessantotto anni, di
cui venti di guerre, quattordici di bagno e lavori forzati, cinquantatré di
vagabondaggio, di povertà, di indipendenza». Sempre dalla biografia scritta
da Guglielmo Natalini è tratto il finale del discorso pronunciato da Benito
Mussolini (allora socialista) nel comizio del 20 gennaio 1913 al Teatro del
Popolo per la chiusura della campagna elettorale per l'elezione a deputato di
Amilcare Cipriani: “Prima del 70' egli offre braccio e anima alla causa
della Patria, dopo il 70' a quello dell'Umanità. Ci dicono che il nostro grande
compagno è vecchio; ma c'è senilità e senilità. C'è quella dell'impotenza,
della stanchezza, del rammollimento fisico e intellettuale. Per questa noi
chiediamo il riposo e il silenzio. Ma per Cipriani la cosa è diversa. Se dopo
tanti eroismi, tanti sacrifici, tante lotte, egli è ancora vivo di corpo, di
cervello e di fede,ciò vuol dire che la sua vecchiaia è migliore della nostra
giovinezza. Amico Colly (il deputato francese venuto a portare la solidarietà
dei socialisti d'Oltralpe) tornerai a Parigi con negli occhi la visione di
questo grande spettacolo di fede e a quel tuo popolo meraviglioso che ha saputo
fare nel corso di un secolo tre rivoluzioni, versando il sangue non tanto per
sé quanto per la redenzione degli altri popoli, tu porterai l'eco ardente del
nostro triplice grido: Viva Amilcare Cipriani, Viva la Comune, Viva il
Socialismo». Il 25 gennaio 1913 Cipriani fu eletto deputato e Mussolini, la
sera stessa, celebrò la vittoria arringando il popolo dal balcone
dell'«Avanti». "Amilcare Cipriani potrà tornare tra noi: gli abbiamo
spalancato la porta al confine. Quando per questa magnifica vittoria di popolo,
egli sarà qui a Milano, voi dovete fare echeggiare di nuovo il grido che io vi
invito a ripetere: Evviva la Comune".
“[…] Anche se io non avessi già, nelle pagine
precedenti (sebbene sommariamente) tentato di dare un cenno di que' climi
oceanici, ove il calore, gl'insetti, la scarsezza d'ogni civiltà, le zanzare,
sono di per se già un tormento inenarrabile; mi sarebbe impossibile dire, con
parole e descriver con frasi, i martiri a cui fu dannato l'infelice durante otto
anni eterni che vi trascorse. Lungo il viaggio, che durò un paio di mesi,
Cipriani fu sottoposto alle più crudeli e feroci rappresaglie dall'infame
Capitano (Riou de Kerprigeant) il quale, feroce imperialista e tutta roba
dell'antico regime, non gli pareva vero d'aver fra le grinfie un Comunardo,
anzi un Capo di Comunardi!,
appena a bordo, quel vile sgherro si fa condurre Cipriani dinanzi dandoli di
brigante... «Siete un vigliacco!» gli risputa in faccia il fiero romagnolo;
soffocando d'ira, lo fa cacciare in fondo alla stiva e ve lo tiene per 45
giorni: incatenato mani e piedi, senz'aria, senza potersi movere in uno spazio
a malapena capace per ricoverare un cane, affamato, assetato dovette (lo ha
confessato lui stesso) beversi la propria orina e leccare le proprie catene per
trovare un refrigerio al martirio; vietatogli il medico, l'infermeria, i
medicinali, viene finalmente sbarcato malatissimo e posto all'infermeria,
appena potendosi reggere in piedi, è cacciato in una capanna. In quell'inferno,
unica speranza: l'evasione! ma il forzato che vuol evadere deve preparare i
mezzi, denaro per corromper gli aguzzini..., Cipriani, a cui l'indomito
carattere, per un nonnulla, per dignità, perché è un leone e non un coniglio,
basta poco per diventare un ribelle, a ogni più piccola protesta: in carcere!
Per sei, per diciotto mesi a morire o a consumarsi dai martirii: l'ultima volta
fu condannato a 18 mesi di carcere duro, 3000 franchi di multa e dieci anni di
sorveglianza. I 18 mesi gli furono commutati in lavori forzati, e sapete come
li passò? Spaccando pietre sulla strada, sotto la sferza del sole, la rabbia
delle piogge, la fame, la sete e l'ardente desiderio di vendicarsi degli uomini
e della Società cosiddetta civile.
Infelice Cipriani! Qual altro eroe
-dite,- quale altra figura, quale altro uomo troverete voi che abbia sofferto
tanto per mantenere puro il carattere, saldo l'animo, integra la coscienza,
ammirabile la serena visione della sua virtù non mai offuscata, ma sempre
adamantina, romagnola, italiana?
Dopo tante torture, e poiché il
tempo tutto sana, anche per Cipriani suonerà la campana della libertà! Della
libertà? vediamo. Tornato a Parigi nell'80, il famoso Rochefort,
quell'unico inarrivabile polemista dell’«Intransigente» (capace di scrivere in
una colonna sola gli articoli più meravigliosi ch'io abbia letto, brillanti e
caustici, logici e inimitabili) lo saluta dal suo foglio, con queste parole;
«Cipriani est la loyauté même. Il a pendant le siège risqué sa viedans dix
combatts pour la defense de la France, qui n'est pas la patrie. La France,
toujours génereuse, par dix ans de déportation à la Nouvelle Caledonie
(Cipriani è la lealtà in persona. Durante l’assedio ha rischiato la sua vita
combattendo per la difesa della Francia, che non è la sua patria. La Francia,
sempre generosa, per dieci anni lo ha tenuto in esilio in Nuova
Caledonia) -
(Giulio Tanini: Cenni biografici della vita di Amilcare Cipriani)».
Un garibaldino dall’animo inquieto
Accade raramente che una vita sia così
rappresentativa di un’idea e ad un tempo ne costituisca la sua problematica
contaminazione, il suo superamento.
Nella variegata abbondanza di esperienze di quei
garibaldini che, vissuta la storia, hanno portato avanti rielaborandoli il mito
e la memoria dell’esperienza, la biografia di Amilcare Cipriani ne è un
esempio. Essa costituisce infatti il fortunato caso in cui il bagaglio
garibaldino non è che la partenza di un’interessante commistione di pensiero
che incontra e deve assimilare le idee e le necessità di una società, italiana
ma anche europea, in rapida evoluzione all’alba del XX secolo.
Nei quasi ottanta anni di vita di questo
“rivoluzionario permanente”[6] – come veniva descritto nel suo dossier
alla sottoprefettura di Rimini – infatti, l’eredità del pensiero garibaldino
incontra e si fonde con le pressanti esigenze della “questione sociale”
all’indomani dell’unità, della scoperta dell’internazionalismo della causa,
della pace e dell’antimilitarismo come valori di una società più equa e del
socialismo militante fino a fare di Cipriani il mito vivente di una nuova
epoca.
Una parabola che mostra come spesso i rigidi confini
in cui si argina a posteriori la tradizione del garibaldinismo fossero in
realtà molto più evanescenti e sicuramente meno determinanti nella pratica. In
questo senso, nell’esperienza di Amilcare Cipriani, la multiforme eredità
garibaldina che dall’unità d’Italia arriva alla Grande guerra incontra le
questioni nodali della teoria socialista come l’interpretazione della guerra e
in particolare della “guerra giusta”, la contrapposizione tra ideale nazionale
e internazionalismo socialista, l’equazione nazionalismo = guerra contro
socialismo = pace.
Ma chi era Amilcare Cipriani?
Nella descrizione autobiografica rilasciata al
quotidiano parigino la “Petite République” egli non esita a dichiarare con
fervore:
Bakunin,
Marx,
Engels che io conobbi in Svizzera e a Londra, le letture di opere socialiste,
fecero di me ciò che io sono da quarant’anni: socialista ateo, rivoluzionario,
comunista ed internazionalista[7].
Ma, sebbene deciso e appassionato il ritratto, non è
completo. Dà infatti per implicita quella “vita di avventure eroiche” – come la
definì il suo amico e biografo Luigi Campolonghi (1912) – che avrebbe reso
Cipriani il simbolo della coerenza socialista e rivoluzionaria all’alba del
nuovo secolo.
Si trattava, dunque, come osservò affettuosamente
Campolonghi, di un uomo più di azione che di pensiero; che, proprio in virtù
dell’appartenenza ad una generazione nata sotto dominio straniero, aveva saldo
come principio di azione istintiva l’amore per la patria libera evoluto,
attraverso la lezione garibaldina, in un internazionalismo umanitario mosso
dall’“odio di tutte le oppressioni”.
Tuttavia, la sua istintiva ribellione ben presto
iniziò a consistere in un’idea. Soprattutto a partire dagli anni del suo
soggiorno in Inghilterra, dal 1867 al 1870, è possibile individuare una
parabola di pensiero che lo avvicina al socialismo (soprattutto nella sua
declinazione anarchico-utopistica), pur lasciando sullo sfondo l’entusiasmo
giovanile per gli ideali garibaldini e il forte legame, ideale ma anche
affettivo, con Mazzini, conosciuto e intensamente frequentato in quegli anni. È
proprio nel clima fervido e vivace del fuoriuscitismo europeo che egli inizia a
subire il fascino della crescente influenza degli esponenti dell’Internazionale
socialista in cui sembrò ravvisare la giusta attenzione per la “questione
sociale”, causa che da tempo lo aveva ormai reso sensibile, e insieme il
superamento del limite della causa strettamente nazionale combattuta da
Mazzini. È ancora una volta nel racconto di Cipriani che si ritrova il senso di
questa transizione:
L’affezione di cui il Mazzini mi dava prova era addirittura
paterna: ma egli non riuscì mai a fare di me un proselite. Spesso mi diceva:
“fra tanti giovanotti che conosco non ho mai trovata un’intelligenza più
ribelle della vostra ad accettare certe idee”. Ma mi amava perché sapeva che io
soprattutto desideravo una cosa, lo splendore dell’Italia, la libertà ed il
bene degli oppressi. E però quando mi udiva esaltar le dottrine del Cabet, egli
diceva ridendo: “tutti i giovani passano di là, ma quando sono uomini vengono a
noi” (Campolonghi 1912).
Nato nel 1843 ad Anzio ma trasferitosi quasi subito a
Rimini, il piccolo Amilcare, nonostante un’educazione rigida e classica,
gestita da religiosi come era di norma in uno Stato sotto l’autorità temporale
del Papa, si appassionò più per istinto che per cultura alla causa
dell’indipendenza nazionale, al racconto mitico e proibito dell’esperienza
rivoluzionaria della Repubblica Romana del 1849 che aveva visto emergere le
figure diverse ma entrambe carismatiche di Mazzini e Garibaldi
come capi ideali per mobilitare il volontarismo italiano. Fu a causa di queste
precoci suggestioni che, appena quindicenne, nell’aprile del 1859, lasciò
Rimini per arruolarsi – illegalmente a causa della minore età – volontario
nell’esercito piemontese impegnato nella seconda guerra di indipendenza.
Era l’inizio di un viaggio senza ritorno che lo portò
a diventare patriota garibaldino e repubblicano, fervente comunardo, agitatore
anarchico e socialista , combattente ad un tempo per la libertà dei popoli e la
causa del proletariato.
Appena un anno dopo, infatti, Cipriani disertò le
file dell’esercito per correre incontro al suo eroe, Garibaldi,
unendosi in Sicilia alla prima ondata della spedizione dei Mille.
Sull’onda di un incontenibile entusiasmo, nel 1863,
rispose al fatidico appello di Garibaldi
“O Roma o morte” e disertò nuovamente per partecipare a quella che, abortita in
Aspromonte, doveva essere la spedizione per la conquista di Roma.
Incredibilmente, lo stesso anno partecipò alla vittoriosa rivolta popolare di
Atene culminata nella deposizione del re Ottone.
Appena tre anni dopo fu ancora agli ordini di Garibaldi
nella terza guerra di indipendenza e, pochi mesi dopo, a Creta per sostenere la
sfortunata rivolta dei greci dell’isola che avevano tentato di sottrarsi al
dominio ottomano.
Questi anni di frenetica attività, di internazionalismo
rivoluzionario, restituiscono sicuramente l’immagine di un uomo votato
all’azione, un garibaldino perfetto che della lezione del suo comandante aveva
romanticamente compreso anche l’internazionalismo della causa degli oppressi.
Ma cosa conduce Cipriani a divenire da garibaldino mito e simbolo del
socialismo anarco-rivoluzionario europeo?
Forse la veloce contaminazione degli ideali
garibaldini, ed in primo luogo dell’idea di nazione, con le suggestioni
provenienti dall’effervescente mondo degli esuli politici disseminati in
Europa, degli intellettuali e dei teorici del socialismo in costruzione.
Certo, a questo progressivo allargamento ideologico
concorsero senza dubbio le sue vicissitudini esistenziali segnate da un
perennemente impossibile ritorno ad una vita tranquilla in Italia che lo
portarono ad alternare lunghi anni di esilio ad altrettanto lunghi periodi di
detenzione in cui esperienze ed elaborazioni plasmarono l’animo di Cipriani[8]. Ma è anche vero che, benché non fosse
un intellettuale, la propensione dell’uomo ad interrogarsi senza tregua sulla
‘causa giusta’ da combattere lo aveva portato per una via più induttiva che
deduttiva a cogliere i limiti di un’azione rivoluzionaria a senso unico, vale a
dire quella della causa nazionale. Già all’indomani dell’unificazione d’Italia,
la permanenza nel Sud del paese al servizio dell’esercito regio impegnato nella
repressione del brigantaggio, lo portarono istintivamente alla scoperta della
‘questione sociale’ che doveva essere se non alternativa almeno complementare a
quella nazionale.
Furono gli anni dell’internazionalismo rivoluzionario
e l’incontro a Creta con Gustave
Flourens, uomo di formazione intellettuale e già figura di primo piano
della sinistra francese, a segnare la svolta verso una visione rivoluzionaria
di dimensione europea poiché – come affermava Flourens
– il combattente patriota che rimaneva tale rischiava di cristallizzarsi negli
schemi del conservatorismo liberal-nazionale.
In questo senso, la svolta esistenziale ed insieme
politica fu certamente la partecipazione alla Comune di
Parigi, seguita al generoso slancio di arruolarsi nella Guardia
Nazionale per difendere la patria francese nella guerra franco-prussiana.
Questo episodio rappresentò non soltanto la
separazione definitiva dalla figura di Mazzini che fino a quel momento aveva
esercitato un grande fascino come apostolo della rivoluzione nazionale ma anche
una svolta ideologica verso il pensiero socialista attento al problema della
ripartizione del potere economico e politico tra le classi sociali che in
quegli anni stava emergendo in tutta Europa.
Era il preludio di quella contrapposizione tra
nazione e classe che avrebbe impegnato senza tregua i dibattiti teorici dei
socialisti europei della Seconda Internazionale e che questa volta era invece
emersa per la via pratica e concreta dell’azione rivoluzionaria.
In seguito all’esperienza della Comune, i
dieci anni di detenzione scontati nelle carceri francesi della Nuova
Caledonia restituirono, intorno al 1880, un uomo profondamente cambiato,
consapevole che l’arma del fucile ormai non era l’unica con cui combattere per
un cambiamento radicale della società ma anche sempre affascinato dalla
rivoluzione intesa come azione, come determinante della vita.
Questo è il momento, e vale la pena sottolinearlo, in
cui anche la percezione per così dire esterna della figura di Cipriani compie
un radicale cambiamento. Il suo leggendario curriculum patriottico e
garibaldino, che gli avrebbe assicurato a buon diritto un posto tra i suoi
compagni ormai onorati, gli procura invece il pesante marchio di incorreggibile
sovversivo.
Esemplare, a questo proposito, è ancora una volta la
sua esperienza biografica. Al suo ritorno in Italia dopo i lunghi anni di
detenzione, Amilcare prese posizione a favore degli anarchici sull’attualissimo
tema della partecipazione alla vita politica della nascente opposizione
proletaria, sostenendo la necessità del passaggio all’azione rivoluzionaria ed
esponendosi così come rappresentante dell’ala più sovversiva del movimento
socialista. La risposta di uno Stato impegnato a fortificare il proprio ordine
interno non poteva che essere di immediata opposizione e per questo Cipriani fu
raggiunto da un mandato d’arresto per cospirazione contro la sicurezza dello
Stato. Come se non bastasse, una nuova istruttoria risultò pendere ben presto
sul suo capo, quella che mirava ad accertare il suo coinvolgimento
nell’uccisione di un uomo ad Alessandria d’Egitto quindici anni prima[9]. Del tutto inaspettatamente, però, il
processo al nuovo “eroe proletario” attirò l’attenzione dell’opinione pubblica,
divisa tra colpevolisti ed innocentisti, con una preoccupante ed incessante
crescita di questi ultimi. Nel 1882, sebbene il processo si fosse concluso con
una piena condanna, era stato impossibile arginare la crescita di popolarità di
Cipriani sostenuta da un movimento innocentista che trovava concorde non solo
tutta la sinistra ma anche personalità di spicco della cultura e delle
istituzioni del nuovo Stato (Giosuè Carducci, Ricciotti Garbali, Felice
Cavallotti, e, dalla Francia, Louise
Michel, Bientot
Malon, Eduard
Vaillant)[10].
Sulla scorta di questo, nel 1882 e poi nel 1886, la
coalizione di sinistra presentò alla Camera dei deputati la provocatoria
candidatura l’“ex colonnello della Comune”:
il sovversivo rivoluzionario andava incontro alle nuove esigenze della politica
in tempo di pace.
Amilcare Cipriani, infatti, condivideva in quegli
anni il problema comune di un’intera generazione votata all’azione di fronte al
riflusso, alla normalizzazione della società. In altri termini, come leggere il
socialismo che iniziava ad inserirsi nella vita parlamentare delle nazioni
voltando le spalle all’azione rivoluzionaria?
La risposta a questo interrogativo non fu mai
univoca, al punto da suggerire quasi una certa incoerenza se non si fosse
conviti che i limiti invalicabili della teoria sono ben altra cosa quando si
tratta della loro messa in pratica. Sebbene, infatti, egli avesse abbracciato
la causa anarchica appoggiando Errico Malatesta[11]
piuttosto che il socialista Andrea Costa[12]
nello sfibrante dibattito che dilaniava gli internazionalisti italiani, dal
1882 fu candidato alle elezioni della Camera dei deputati per ben cinque volte
e, a livello internazionale, non rifiutò mai la strada conciliante della
partecipazione, nonostante le aspre delusioni iniziali per l’emarginazione dei
gruppi anarchici in seno all’Internazionale
socialista. Sul finire del secolo, questo si univa al ripudio, comune anche a
Malatesta, della falange anarchica terrorista responsabile di una fitta serie
di attentati in tutta Europa che, tragicamente riusciti, ebbero sul piano
politico l’effetto negativo non solo di inasprire la repressione dei governi ma
anche di rendere incolmabile quel divario che separava gli anarchici dai
socialisti ormai organizzati in partiti nazionali sostenitori del
parlamentarismo.
Dunque, nonostante il fervente anarchismo dichiarato,
le scelte politiche mettevano Cipriani nella condizione di poter essere il
simbolo di un passato legittimante per una ben più vasta coalizione di sinistra
che comprendeva socialisti, repubblicani e radicali.
Sul finire del secolo, insomma, Cipriani
rappresentava quel nesso essenziale tra la nuova generazione ed il suo passato,
l’idea garibaldina come presupposto necessario per l’azione socialista ed
insieme il suo superamento, la nazione come spazio costruito in cui portare
avanti la lotta sociale.
L’ingenua ma efficace descrizione di un periodico
anarchico-socialista siciliano in vista del comizio del 1° maggio 1891 a
Marsala rende bene questo passaggio:
Qui a Marsala, nell’11 maggio 1860 ci fu Garibaldi,
oggi 8 aprile 1891 c’è Cipriani. I nostri antichi fecero l’Italia e la
borghesia conquistò la proprietà dei nobili e dei preti. Noi della nuova
generazione, se l’ingegno e la volontà non ci verranno meno, formeremo la
società comunista- anarchica[13].
La svolta: la spedizione in Grecia del 1897
Ma la causa nazionale, lo dice bene Gilles Pécout
(2005), rimase a lungo la più internazionale delle cause. Nonostante il vasto
dibattito che si andava preparando in seno al socialismo europeo, dunque,
questo superamento generazionale della causa nazionale non era così automatico
né tanto meno pacifico.
A dimostrarlo sopraggiunse ben presto la questione di
Creta che, nel 1897, fu all’origine del nuovo conflitto greco-turco. La
questione della lotta di un popolo oppresso per la propria indipendenza era
l’argomento classico – e ancor più lo sarà negli anni a venire – su cui cadeva
la rigida opposizione socialista tra l’universalismo internazionalista e le
problematiche nazionali, lo scoglio contro cui si dimostrava che nella pratica
era necessaria una “sintesi”, una conciliazione di queste due tradizioni oltre
ogni dubbio.
Un’esigenza talmente forte che, ancor prima dei
magistrali tentativi teorici e politici di personaggi del calibro di Jean
Jaurès[14],
si riscontrava anche nella propaganda spicciola del partito socialista italiano
quando all’alba della mobilitazione per la Grecia affermava dalle pagine
dell’“Avanti!”:
Il partito socialista italiano è unanime nel ritenere che
gli interessi suoi, che gli interessi del proletariato europeo collimano colle
aspirazioni del popolo greco. […] Permettiamoci l’orgoglio di constatare che la
parte più bella e più pura della tradizione rivoluzionaria della borghesia
italiana, caratterizzata da quello spirito di fratellanza internazionale che
dava i combattenti all’America, alla Francia e alla Polonia, sia passata nel
partito socialista che la riconsacra nella lotta per l’emancipazione operaia [15].
Benché non esplicita, era la riappropriazione da
sinistra della tradizione garibaldina, del volontarismo, dell’internazionalismo
della causa degli oppressi che legittimava la guerra nazionale per inserirla
nella causa della rivoluzione socialista.
E questo in un momento in cui il movimento socialista
europeo aveva elaborato almeno le premesse di una dottrina sulla guerra
abbastanza omogenea e condivisa, coltivando sempre più un orientamento
pacifista anche a scapito dei diritti delle nazionalità oppresse[16].
Ma come ben sapevano anche i vertici del partito
italiano, il militante socialista di fine secolo guardava molto più a Garibaldi
che a Marx.
Sul piano della rappresentazione della guerra, dunque, era naturale che
influissero più le imprese gloriose del recente Risorgimento che le indicazioni
dei Congressi della Seconda Internazionale. E questo era vero anche a livello
dirigenziale del partito, se si considera che furono esclusivamente Filippo
Turati[17]
ed Anna Kuliscioff[18]
a prendere una posizione conforme alle direttive internazionaliste di
fronte alla guerra del 1897.
Si comprende bene, in questo quadro, il profondo
valore simbolico di un personaggio come Cipriani, garibaldino e comunardo, che
di questo legame profondo era prodotto ed insieme simbolo. Convinto che la
rivolta sull’isola fosse un evento rivoluzionario di vasta portata proprio
perché gli ricordava quello spontaneismo della Comune che
invece aveva lasciato indifferente Marx,
Cipriani, proveniente da Parigi, sbarcò al Pireo il 12 marzo per mettersi alla
testa di un variegato gruppo di volontari italiani che dovevano combattere ai
confini della Macedonia.
Lo spazio a nostra disposizione non ci consente di
analizzare le interessanti vicende della Legione Cipriani, delle illusioni e
dei disinganni del volontarismo socialista, argomento del resto recentemente
approfondito dalla bella ricerca della storica Eva Cecchinato, che molto
illuminano sul dissidio tra nazione, classe e guerra interno al movimento [19].
Ma ai fini del discorso che ci interessa vale la pena
sottolineare che Cipriani si trovò a capo di un gruppo di volontari eterogenei,
per nulla inclini ad essere irreggimentati nell’esercito regolare e senza
alcuna una esperienza diretta della guerra. Del resto, fin dalle prime fasi del
reclutamento in Italia, il volontarismo socialista cui faceva capo la Legione
Cipriani era organizzato in maniera assai diversa da quella dei gruppi di
repubblicani, radicali e borghesi che costituivano l’universo di Ricciotti
Garibaldi. Nel primo caso, infatti, prevaleva, se così si può dire, un
certo individualismo disorganizzato, una motivazione solidale, volontaristica
ma al tempo stesso avversa ad ogni tipo di disciplina e gerarchia, che rendeva
difficile la loro incorporazione nell’esercito regolare. Una descrizione
confermata anche nella versione che lo stesso Cipriani aveva fornito a
Campolonghi che nel suo libro-memoriale scriveva:
Il Cipriani partì da Parigi d’accordo con un certo Guscio,
direttore della Banca Anglo- Egiziana, il quale organizzava in quel tempo le
bande armate che, invadendo il territorio macedone, dovevano, sotto il comando
di Cipriani, spingere la Turchia a dichiarare la guerra, alienandole le
simpatie dell’ Europa che si sarebbero invece raccolte sulla Grecia. Ma ad
Atene il Cipriani trovò molti giovani sbandati e discordi che lo invitarono ad
essere il loro capo ed egli, dopo essere rimasto un po’ titubante, acconsentì
e, annunciata a Guscio la decisione di declinare l’incarico di organizzare le
bande per condurne una sola e italiana, al fuoco, si diresse con la sua
legione, forte di circa 240 uomini, verso Valenstino (Campolonghi 1912).
In più, gli ideali di riferimento così come le
convinzioni personali che avevano spinto alla partecipazione volontaria i
membri della Legione erano talmente generali da risultare vaghi e, in generale,
poco politici. Era quanto di più lontano dal baldanzoso ritratto del
volontarismo garibaldino. Emergeva, piuttosto, il ritratto di una nuova
generazione che, come lo stesso Cipriani affermava, “ha sete di epopee e
rifiuta questo stanco e snervante fine secolo”, ma che nel frattempo perdeva in
un passato sempre più mitizzato le esperienze garibaldine di fronte alla realtà
di società impegnate a rafforzare le proprie conquiste istituzionali.
Alla fine del secolo, insomma, costruite ormai le
nazioni, il volontarismo in nome della liberazione degli oppressi non poteva
avere un’interpretazione così univoca ed entusiasta, soprattutto per il mondo
di sinistra.
Lo stesso Cipriani, ferito a Domokos, doveva
constatare il fallimento dell’insurrezione popolare ed in generale
dell’esperienza sia dal punto dell’efficacia militare che da quello politico,
soprattutto a causa dei forti contrasti in seno al mondo socialista ma anche
anarchico.
In questo, il dissidio con Malatesta, aspro
contestatore della spedizione di volontari italiani in Grecia, era sintomatico
del cambiamento dei tempi. In contrasto con la lettura spontaneista di
Cipriani, infatti, Malatesta esprimeva una posizione contraria alle guerre di
liberazione puramente nazionaliste come giudicava quella della Grecia contro la
Turchia. Era l’affermazione di una questione di priorità: l’internazionalismo
operaio doveva avere la precedenza come battaglia rivoluzionaria perché essa
portava in sé anche la soluzione delle cause nazionali.
Di fronte a questo, la guerra come evento cambiava
profondamente di senso passando da esperienza rivoluzionaria di emancipazione degli
oppressi a prodotto del capitalismo.
Ciononostante, Cipriani, che pure si definiva
socialista rivoluzionario, abbracciava la causa greca per un sentimento ancora
intriso di insegnamenti garibaldini che gli permetteva di specificare con un
sottile distinguo: “noi difendiamo i greci, non la monarchia: noi non siamo al
soldo di questa ma al soldo del comitato rivoluzionario che ci ha armati e
pagati. […] siamo vestiti in borghese, con la camicia rossa”[20].
Nonostante le convinzioni socialiste e rivoluzionarie
era ancora quanto Garibaldi
aveva lapidariamente affermato al Congresso della Pace di Ginevra del 1867 ad
animare il cuore di Cipriani: “Lo schiavo ha il diritto di fare la guerra al
tiranno. Gli è il solo caso in cui credo che la guerra sia permessa”[21]. Un pensiero recondito che neanche i
futuri anni di militanza socialista poterono scalfire.
Il socialismo europeo costruisce il mito: 1900-1918
Negli anni successivi, il socialismo europeo che
iniziava a costruire il mito di Cipriani non sempre fu attento e consapevole di
questa profonda impronta garibaldina.
L’esilio ormai definitivo e volontario a Parigi vide
la progressiva sostituzione del Cipriani combattente con il giornalista
politico sempre più accreditato negli ambienti socialisti europei, soprattutto
da quando, nel 1908, fu invitato a far parte della redazione de “L’Humanité”
fondato da Jean Jaurès[14].
Come ben testimonia il suo dossier presso la
sottoprefettura di Rimini, che segue da vicino la produzione giornalistica
sovversiva di Cipriani ma senza troppa preoccupazione, gli anni dell’intensa
attività di volontario combattente (1859-1897) sono ormai conclusi. Si apriva
invece l’era del Cipriani assunto a mito da una nuova generazione di
intellettuali cresciuti in tempo di pace, per la quale le imprese garibaldine
avevano l’esclusivo sapore del mito. Come commentava Giuseppe Prezzolini[22] nel corso di un’ammirata intervista
concessagli da Cipriani nel 1914 si trattava di due generazioni a confronto:
La nostra fu tutto pensiero, la loro tutta azione. Noi li
comprendiamo essi ci guardano da lontano, non possono pensare bene di noi. Lo
so, lo so anche se non lo dite Cipriani, siamo degenerati per voi, siamo
effeminati, cresciuti nella pace, nutriti di tranquillità, senza le costole che
fanno arco nella pelle dei fianchi, senza cicatrici ai ginocchi e sulla faccia
e sulle mani; uomini che hanno usato gli occhi fino alla miopia sui libri, e
non posero mai in mano il fucile; e non hanno mai veduto né una rivoluzione né
una guerra[23].
L’evoluzione del clima culturale europeo in un
contesto di pace, così acutamente colta da Prezzolini, facilitò senza dubbio la
conversione totale di Cipriani alla causa socialista così come interpretata
dalla Seconda Internazionale e dunque intrisa di dedizione antimilitarista,
pacifismo internazionalista e persino antipatriottismo.
Del resto, per un rivoluzionario permanente, la
situazione che si poteva osservare non concedeva illusioni per un sovvertimento
prossimo dell’ordine costituito: il proletariato aveva bisogno della pace per
consolidare il proprio peso all’interno delle nazioni e le guerre coloniali
rappresentavano fin troppo evidentemente una causa capitalista.
Commentatore di “cose italiane” per “L’Humanité”, al
tempo dell’impresa in Libia egli non perse occasione per dichiararsi fedele
difensore del principio della “guerra alla guerra” benché, come anche un rapido
sguardo ai suoi articoli di quel tempo mostrano chiaramente, la sua analisi
fosse spesso condita da una polemica repubblicana, spesso stonata, verso quella
monarchia che egli definiva “rapace”, sostenuta dagli ambienti militari,
nazionalisti e clericali (Canale Cama 2006).
Nella sua analisi, dunque, l’atteggiamento del governo
italiano nella guerra di Libia era la conseguenza ineludibile di decenni di
politica autoritaria dai contenuti ferocemente antipopolari:
Scherzi a parte, questo re, che appartiene senza dubbio alla
famiglia delle cucurbitacee, vorrebbe impadronirsi della Tripolitania per
trasportare la sua civiltà su queste sterili spiagge. Noi italiani, che la
conosciamo a fondo, questa civiltà, e lo sappiamo purtroppo! Per esperienza,
questa è fatta di massacri, omicidi e spoliazioni, non desideravamo che questi
sfortunati la assaggiassero e diventassero i soggetti di questa monarchia
spregevolmente rapace. C'è già un'intera campagna stampa che è iniziata, una
campagna, è comprensibile, pagata con fondi dei rettili, per spingere la
nazione in questa avventura, con il pretesto che è l'unica striscia di terra
disponibile, che rimane a prendere nel Mediterraneo, e che appartiene
all'Italia che, in questo, si troverebbe racchiusa in un cerchio di ferro[24].
Per quanto pervasa di accenti retorici, la sua
descrizione della guerra attuale si adattava perfettamente alla propaganda
socialista dell’epoca della “guerra alla guerra”. Anzi, sottolineando come la
questione attuale affondasse le sue radici nel passato, Cipriani confermava che
l’aggressione italiana in Libia non era altro che l’ ultima battaglia di una
lunga guerra giunta ora al suo momento culminante: con un po’ di forzatura
teorica, la “guerra alla guerra” si ritrovava erede diretta del volontarismo
internazionalista nella lotta contro l’oppressore.
Ma, all’inizio del nuovo secolo, persino
l’internazionalismo della causa degli oppressi non aveva più lo stesso sapore
delle guerre tardo ottocentesche. Anzi, le guerre balcaniche del 1912-13 gli
davano modo di ribadire la linea secondinternazionalista ormai sposata: no all’intervento
nelle guerre nazionali e rafforzamento della pace secondo l’insegnamento
jauresiano. “C’est le moment – diceva nel 1912 alla vigilia del grandioso
congresso di Basilea – où jamais de crier bien haut: guerre à la guerre”[25].
Le grandi campagne antimilitariste del 1913 lo videro
del resto attivo protagonista accanto a Jaurès e disposto anche ad uno sguardo
critico del suo passato di rivoluzionario combattente.
In un’intervista a L’Humanité nel 1913, intitolata
significativamente Ce que m’a rapporté la guerre, egli ritornava ad esempio
sull’esperienza della guerra greco-turca giudicandola come l’ultima, forse
tardiva, fase di un’epoca. L’immagine del volontario che egli restituiva in
quell’occasione cercava quasi una giustificazione ai nuovi occhi della lotta
antimilitarista: non è quella del valoroso guerriero ma quella dell’uomo
disperato che si impegna anche in piccole operazioni di solidarietà civile
“pour chercher de faire quelque chose de bon”.
Nel cinquantenario dell’unità nazionale, proprio mentre
il nazionalismo italiano si appropriava del mito di Garibaldi
festeggiando in pompa magna, dunque, per l’ex garibaldino la causa “giusta” da
combattere diveniva quella del proletariato internazionalista ed
antipatriottico. Più che questa evidente frattura identitaria, era però l’arma
del parlamentarismo attraverso cui la causa si combatteva a frustrare l’animo
del ‘rivoluzionario permanente’.
Non deve sorprendere, dunque, l’entusiasmo con il
quale egli accolse l’ascesa di Benito Mussolini e lo spostamento del partito
socialista italiano su posizioni intransigenti rivoluzionarie nel 1912.
Il futuro Duce, del resto, portava il secondo nome di
Amilcare proprio in onore del vecchio comunardo, di cui il padre, Alessandro,
era fervente ammiratore oltre che amico. “Quest’uomo – commentava Cipriani
dalla Francia – mi piace molto. Il suo rivoluzionarismo è il mio, dovrei dire
il nostro, cioè quello che si chiama classico”.
Fu in nome della battaglia degli intransigenti che,
nonostante le riserve, Cipriani accettò di essere candidato, con successo, nel
1913 alle elezioni per la Camera dei deputati e che guardò con favore agli
avvenimenti della Settimana rossa nella primavera del 1914.
Siamo alla vigilia, ormai, della prima guerra
mondiale e su “L’Humanité” si moltiplicano gli appelli di Cipriani perché l’Internazionale
diventi un vero strumento di azione rivoluzionaria e di difesa del
proletariato. La situazione internazionale ormai compromessa spingeva Cipriani,
sulla stessa linea di Jaurès, ad essere favorevole all’arma dello sciopero
generale in caso di guerra e a premere per l’anticipo del congresso di Vienna
previsto per imporre la parola di pace del proletariato europeo.
Ma, ai principi di agosto, la guerra scoppiata
nonostante tutto poneva all’animo del vecchio garibaldino e comunardo un
dilemma, il più classico e ricorrente per un uomo dai suoi trascorsi:
raccogliere l’appello della patria in pericolo o adoperarsi secondo il dictat
di Stoccarda perché la guerra scoppiata cessi al più presto?
È a questo punto che l’insegnamento garibaldino
riaffiora dalla coscienza recondita: “Lo
schiavo ha il diritto di fare la guerra al padrone”. Nella nuova
situazione, schiavo rischiava di essere la Francia antimilitarista e
democratica minacciata dal bellicismo teutonico, così come l’Italia se non
avesse scelto la “guerra giusta” quella che, accanto alla Francia non solo si
combatteva per la Repubblica come ideale, come preludio alla realizzazione
socialista ma anche per le terre irredente, per il completamento della nazione
e la libertà dallo straniero.
La “guerra giusta”, la guerra per porre fine a tutte
le guerre, per l’Italia coincideva con l’ultima guerra di indipendenza. Era,
naturalmente un’interpretazione della guerra in senso ancora profondamente
ottocentesco che però, per l’occasione si congiungeva alle posizioni
irredentiste espresse in Italia dal recente nazionalismo.
Per il Cipriani “osservatore” della realtà italiana
questa scelta dolorosa ma senza rimpianti si traduceva nell’appoggio alla
posizione di Mussolini della “neutralità attiva ed operante” che implicitamente
era l’anticamera per l’intervento italiano a fianco della Francia.
A suggerire un’idea di coerenza poi contribuiva anche
l’ideale patriottico e rivoluzionario insieme della Comune:
nella Parigi travolta dalla guerra fu diffuso un appello in favore della guerra
contro Germania e Austria dove tra i firmatari il nome di Cipriani spiccava
accanto a quelli dei più prestigiosi esponenti dell’anarchismo internazionale:
Hervé, Vaillant,
Kropotkin, Hyndmann.
Era la quadratura del cerchio: nella speranza di
nuova matrice leniniana che una guerra tra nazioni si sarebbe trasformata in
rivoluzione sociale avveniva il ricongiungimento dell’eredità garibaldina con
quella socialista ed insieme il suo superamento. Il vecchio Cipriani non visse
abbastanza per constatare quanto queste convinzioni fossero illusorie.
Dopo la sua morte, l’estremo tentativo di sintesi
identitaria fu tentato dall’elaborazione della memoria. Come si evince dal suo
dossier alla sottoprefettura di Rimini, nel 1922 i cittadini di Anzio
promossero una sottoscrizione popolare per una statua che celebrasse l’eroe. Ma
i tempi iniziavano a volgere verso un clima antilibertario. Nel 1925, con il
definitivo avvento della dittatura fascista, il progetto fu definitivamente
abbandonato. Nonostante il trionfo e un percorso di lotta condiviso, il Duce
non poteva permettere la celebrazione di un garibaldino anarchico e socialista
in pubblica piazza.
Ma qui inizia un’altra storia.
Tratto da:
Storia e Futuro - Rivista di storia e storiografia, n. 17, giugno 2008
Libri
[1] Guido Nozzoli (Rimini, 1918 – Rimini, 11 novembre 2000) è
stato un partigiano, giornalista e scrittore italiano.
[2] Bosco della Ficuzza fa parte di un'area naturale protetta della Regione Siciliana.
[3] Emmanouil Dadaoglou (morto nel 1870) era un anarchico
greco. Era il compagno della Comunarda
e anarchica italiana Maria
Pantazi.
[4] Nei primi giorni del giugno
1870, sui monti tra Lucca e Pistoia, si consumò la breve vicenda della ‘Banda
repubblicana lucchese’, che, contestualmente a iniziative simili a Livorno, in
Maremma e nei pressi di Pisa, tentò, per usare le parole della sentenza di
rinvio a giudizio, di marciare su Firenze, allora capitale dello Stato italiano
per “rovesciare il governo e mutarne la forma” e di porre in atto un moto
insurrezionale il cui scopo era “distruggere e cambiare il governo legittimo
dello Stato per sostituirvi la repubblica”
[6] Dossier Cipriani, AcS, Min. Interno, Cpc, b. 1361.
[7] Petite République, 12 gennaio
1904.
[8] Valga per tutti
l’episodio più noto e discutibile della biografia di Cipriani, l’uccisione di
tre uomini ad Alessandria d’Egitto in seguito ad una lite. Nel 1867,
infatti, Cipriani era tornato ad Alessandria dove già precedentemente si era rifugiato
conducendo una vita semplice ma al contempo operando attivamente, non senza
dissapori, all’interno delle società
patriottiche. La notte del 3 settembre, proprio alla fine di una serata che
doveva avere lo scopo di riappacificare il gruppo di esuli italiani,
Amilcare si trovò coinvolto in una lite finita in tragedia con l’uccisione di
un suo compagno e quella, di poco
successiva, di due guardie egiziane che, nella sua fuga, lo avevano scambiato
per un ladro. Costretto a riparare all’estero perché non in possesso del
passaporto italiano (era infatti ancora considerato come un disertore dall’esercito italiano) che gli avrebbe evitato il
giudizio del tribunale locale, si rifugiò a Londra. Al di là della sua disperazione per il fatto di “vivere un incubo assurdo”,
l’episodio ritornerà, come vedremo, a segnare la sua vita in uno dei momenti di
sua maggiore visibilità politica (Campolonghi 1912; Natalini 1987).
[9] Le vicende del processo e poi degli anni di detenzione sono
evocati da Cipriani in un memoriale a puntate (quaranta) pubblicato dal giornale “ Il Messaggero” tra il
novembre 1888 e il gennaio 1889.
[10] Vale la pena sottolineare, poi, che la storia del processo,
raccolta in un volume dal titolo Per
Amilcare Cipriani e pel diritto con tanto di commenti di esperti sull’illegittimità
dell’accusa, fu ristampato due volte (1883 e 1886) per il notevole successo di pubblico.
[11] Errico
Malatesta (S.Maria Capua Vetere, Caserta, 14 dicembre 1853 - Roma, 22 luglio
1932) è stato il teorico e il rivoluzionario anarchico italiano più importante
della storia dell'anarchismo. Insieme a Pierre-Joseph
Proudhon, Michail
Bakunin, Benjamin Tucker e Petr Kropotkin è in assoluto uno degli anarchici
che hanno più di tutti diffuso nel mondo gli ideali dell'anarchia.
[12] Andrea
Costa (Imola, 30 novembre 1851 – Imola, 19 gennaio 1910) è stato inzialmente
anarchico protagonista di numerose iniziative inssurrezionali in Italia
(Bologna, Banda del Matese ecc.), successivamente passò al socialismo
parlamentare diventando il primo deputato socialista della storia d' Italia.
[13] Il Proletario, aprile 1891
[14] Auguste Marie
Joseph Jean Léon Jaurès, comunemente noto come Jean Jaurès (3 settembre 1859 -
31 luglio 1914), era un leader socialista francese. Inizialmente un repubblicano moderato , fu in seguito uno dei
primi socialdemocratici , diventando il leader, nel 1902, del Partito
socialista francese , che si oppose al rivoluzionario Partito socialista
francese di Jules
Guesde. Le due parti si sono fuse nel
1905 nella sezione francese dell'Internazionale dei lavoratori (S.F.I.O). Antimilitarista, Jaurès fu assassinato allo scoppio della
prima guerra mondiale e rimane una delle principali figure storiche della
sinistra francese .
[15] “Avanti!”, 12 marzo 1897.
[16] Si vedano a questo proposito le considerazioni di G. Oliva
e L. Rapone su guerra e pace (Agosti 2000).
[17] Filippo
Turati (Canno, 26 novembre 1857 – Parigi, 29 marzo 1932) è stato un politico,
giornalista e politologo italiano, tra i primi e importanti leader del
socialismo italiano e tra i fondatori, a Genova nel 1892, dell'allora Partito
dei Lavoratori Italiani (che diventerà, nel 1893 a Reggio Emilia, Partito
Socialista dei Lavoratori Italiani, avendo ancora questo nome al convegno
di Imola nel 1894 e, nel 1895 con il congresso di Parma, Partito Socialista
Italiano).
[18] Anna Moiseevna Rozenštejn, conosciuta come Anna
Kuliscioff, (Moskaja, Russia, 9 gennaio 1853 – Milano, 29 dicembre 1925), è
stata un'anarchica, medico, femminista e rivoluzionaria russa. Conosciuta anche
per essere stata compagna di Andrea Costa e di Filippo Turati, dopo
l'anarchismo aderì al socialismo e fu tra principali esponenti e fondatori del
Partito Socialista Italiano.
[19] Su questo argomento la
storiografia è tornata in più di una occasione (Cecchinato 2007; Oliva 1982).
[20] “Avanti!”, 4 aprile 1897.
[21] “Libertà e Giustizia”, n. 7, 1867.
[22] Giuseppe Prezzolini (Perugia, 27 gennaio 1882 – Lugano, 14
luglio 1982) è stato un giornalista, scrittore, editore, docente universitario
e aforista italiano.
[23] “Avanti!”, 4 gennaio 1914.
[24] “L’ Humanitè”, 26 settembre 1911.
[25] “L’ Humanitè”, 24 ottobre 1912.