ARTHUR ARNOULD
Arthur Arnould, di origine provinciale
"salito" a Parigi, ma solo dopo le
rivoluzioni del 1848, cominciò a farsi notare nel mondo del giornalismo
negli anni Sessanta dell’Ottocento, collaborando prima a riviste e poi a
giornali considerati di opposizione. In qualche redazione, dovette fare
conoscenza anche di Lefrançais
che in seguito, in uno dei suoi feuilleton[1], l’avrebbe ritratto così: "[Arnould
è] un giornalista di talento, ben noto ai lettori della Marseillaise,
verso la fine
dell’Impero. Poco entusiasta, persino un po’ scettico ma di grande lealtà,
in lui l’eclettismo in materia di socialismo è pura pigrizia di spirito.
Preferisce accomodarsene che non approfondire le sue idee in proposito. Eppure
quando decide di darsi un po’ da fare, sa ben penetrare, e in profondità. È
entrato nella rivoluzione soprattutto per odio verso la stupidità e la
canaglieria dei suoi avversari. Preferirebbe volentieri la letteratura alla
politica, ma capisce che ci sono delle circostanze in cui si deve sacrificare
tutto al dovere"[2].
È nato a Dieuze[3], il 17 aprile 1833. Fu un Comunardo
anarchico, membro attivo della Prima Internazionale, dipendente della Pubblica Assistenza, scrittore e
giornalista. Proveniente da una famiglia di accademici liberali - suo padre
Edmond Arnould era professore di letteratura straniera alla Sorbona dal 1856
fino alla sua morte nel 1861 - Arthur intraprese studi classici ad Angers[4], Strasburg[5],
Poitiers[6], poi iniziò gli studi di medicina a
Parigi nel 1850.
Impiegato presso il ministero della Pubblica
Istruzione, poi alla prefettura della Senna, alla fine si dimise per fare il
giornalista, di opposizione in particolare.
Nel 1868 pubblicò il settimanale La Foire aux
sottises (12 numeri). Nel dicembre 1869, insieme a Rochefort,
partecipò al lancio de La
Marseillaise.
La sua opposizione all'Impero
gli fece guadagnare multe e galera: 600 franchi di multa il 25 settembre 1867
per un articolo pubblicato su L'Epoque; 100 franchi di multa il 16 ottobre 1868
per un nuovo reato di stampa; un mese di prigione e 2.000 franchi di multa il
16 maggio 1869 per un articolo pubblicato su La Réforme; quattro mesi di
prigione il 27 luglio 1870, per lo stesso precedente crimine.
Dopo il 4
settembre 1870, divenne vece bibliotecario della città di Parigi e
vice-sindaco del 4°
arrondissement. Candidato nel febbraio del 1871 alle elezioni
dell'Assemblea nazionale, non venne eletto. Si rifece dopo il 18
marzo nella Comune,
alla quale aderì su posizioni anarchiche di tendenza proudhoniana[7].
Eletto il 26
marzo 1871 al Consiglio
della Comune nel 4°
arrondissement (8608 voti su 13.910 votanti e 32.060 iscritti) e nell’8°
arrondissement (2.114 voti su 4.396 elettori), Arnold optò per il quarto
e fu delegato per il municipio dell’arrondissement.
Ricoprì diversi incarichi: è stato membro della
Commissione per le Relazioni esterne (29
marzo), della Commissione Lavoro e Scambio (6
aprile), della Commissione di Sussistenza (21
aprile) che abbandonò il 4
maggio per quella dell’Insegnamento.
Il 1º
maggio divenne responsabile, con Vermorel,
alla redazione del Journal
officiel della Comune.
Appartenente alla minoranza del Consiglio, ha votato
contro la creazione del Comitato
di Salute pubblica. e, il 15
maggio, ha firmato la dichiarazione della minoranza: "La Comune di
Parigi ha abdicato il suo potere nelle mani di una dittatura a cui ha dato
il nome di Sicurezza pubblica".
Lepelletier, nella sua Histoire de la Commune de
1871, lo descrive: "Era allora un uomo dall'apparenza piuttosto severa,
che dimostrava più della sua età, con i suoi capelli color argento che portava
abbastanza a lunghi, pettinati all’indietro ... Aveva un portamento vivace e
chiaro e di un'intelligenza sveglia. Il suo temperamento era di pigrizia, le sue
parole di malcontento, ma non violente ... Arthur Arnould, la cui arma era la
penna e non il fucile, un uomo il cui ufficio era la strada, un pensatore
assordato in un'assemblea tumultuosa, un lottatore audace nelle polemiche e
timoroso in azione, era uno dei membri più colti della Comune».
Ricordi dalla Svizzera
Alla repressione della Comune,
riuscì a fuggire in Svizzera. Il 6°
Consiglio di guerra lo condannò in contumacia, il 30 novembre 1872, alla
deportazione in un recinto fortificato.
Da una lettera inviata a Jules
Vallès il 22 Giugno 1872, «Un prete, che io non conoscevo, mi preso e mi ha
tenuto due mesi a casa, a Batignolles, mi ha dato un passaporto e mi ha
accompagnato lui stesso in Svizzera».
Rifugiato a Ginevra, dove veniva chiamato Larive (o
Larrive), Arnould si guadagnò la vita come corrispondente per vari giornali,
tra i quali il foglio anarchico La Révolution sociale.
Sua moglie Jenny e sua madre si unirono presto a lui.
Fece parte della Sezione di Propaganda e d’Azione Rivoluzionaria Socialista di
Ginevra, costituita, l'8 settembre 1871, su iniziativa dei proscritti francesi.
Inviato da un quotidiano parigino a Lugano, al fine di partecipare al congresso
della Lega
Internazionale per la Pace e la Libertà, vi si stabilì nella primavera del
1873 nella casa che aveva appena lasciato Elisée
Reclus, e divenne amico di Michail
Bakunin.
Nel settembre del 1874 Arnould, avendo imparato a
lavorare di verniciatura ed edilizia e Jules
Guesde di contabilità, andarono entrambi ad Anversa (Belgio) per imbarcarsi
per Buenos Aires. Guesde
non avendo ricevuto i soldi che si aspettava e non prese la nave, ma Arnould
partì con sua moglie e sua madre. Senza dubbio la situazione che gli offriva
l’Argentina non corrispondeva alle sue aspettative, perché la sua permanenza fu
di breve durata e tornò a Lugano dove, visse dal 1874 al 1877 nella comunità
anarchica della Luina di Pazzallo, vicino Lugano, li mantenne un’importante
corrispondenza con Jules
Vallès (pubblicata nel 1950) e conobbe, diventandone amico, Michail
Bakunin, rifugiato anche in questa città, sul quale scrisse un saggio.
Nel 1876, Arnould fece parte di un comitato composto
da tre persone a cui furono affidati i manoscritti lasciati da Michail Bakunin,
che morì il 1° luglio; in seguito li passò a James
Guillaume. Nel 1877 si stabilì nuovamente a
Ginevra. Nei successivi quindici anni pubblicò una trentina di romanzi popolari
con il nome di A. Matthey, nome di sua moglie (morta nel dicembre 1886).
In Svizzera Arnould collaborò nel Butlletin de la Fédération
Jurassienne, in altri periodici libertari e socialisti rivoluzionari e alle
riviste ginevrine La Commune e Le Travailleur. A Ginevra, ha pubblicato L’Etat
et la Révolution (1877), poi una Histoire populaire et parlementaire de la
Commune de Paris (1878).
Nel 1879 Wroblewski
e Arthur Arnould furono nominati membri dell'Istituto di scienze morali e
politiche di Ginevra.
Arnould ha scritto "a caldo", nell’esilio
svizzero, delle storie della Comune,
tra memoria e riflessione l’Histoire populaire et parlementaire de la Commune
de Paris (pubblicato solo nel 1877 a Bruxelles).
Arnould ha lasciato dei ricordi sui primi anni di
esilio che trascorse in Svizzera a Ginevra, che lo studioso svizzero Marc
Vuilleumier ha recuperato e riunito nel volume Gustave
Lefrançais, Arthur Arnould, Souvenirs de deux Communard réfugiés à Genève
1871-1873, Edition Collège du Travail, Genève 1987.
I ricordi di Arnould sono apparsi in feuilleton sul
quotidiano Rappel
nel 1874, dal 25 agosto al 22 ottobre. Vuilleumier ne ha selezionati solo
alcuni.
Così Arthur Arnould scriveva della sua esperienza a
Ginevra:
“Un’altra cosa, di tutt’altro genere, colpisce mentre
si scende a Ginevra: una sensazione ben strana per un francese.
Questa cosa è l’assenza di uniformi e di decorazioni,
di spade e di piume: niente soldati, niente caserme, niente tamburi, niente
polizia – o così poca che non ci si accorge. D’altronde essa si nasconde, si fa
piccina piccina. Qui, la pubblica via appartiene ai cittadini, sono loro a
comandare, loro sono tutto. Chiunque abbia un brandello di potere, è servitore
del popolo, da questi si sente creato, e rispetta le leggi invece di cambiarle
secondo i suoi comodi e le sue fantasie, e non crede di essere diventato la provvidenza.
Questa sensazione deliziosa, che rinfresca il viso,
allarga il petto, e vi fa pensare di essere più uomo – è la sensazione della
libertà. Sembra che un grave peso, soffocante, che vi schiacciava dalla tenera
infanzia, sia scomparso […]. È che, in effetti, a Ginevra, dal punto di vista
politico, si è liberi, assolutamente liberi. L’operaio, come ovunque, guadagna
a stento di che vivere; ma non è avvilito, messo fuori legge, e ha nelle sue
mani tutti i mezzi per un prossimo completo affrancamento. Salvo dunque nelle
questioni economiche, dove subisce il regime della vecchia organizzazione del
lavoro, il popolo di Ginevra non ha quasi altro da desiderare. Gode di tutti i
diritti, di tutte le prerogative, di tutte le libertà inerenti la dignità umana.
Libertà di stampa assoluta, libertà di opinione assoluta, libertà di riunione
assoluta, libertà di voto reale, uguaglianza politica completa: ecco quel che
già possiede. Il resto, l’avrà quando lo vorrà, nel momento in cui lo vorrà.
Può riunirsi nelle strade, in numero tanto grande
quanto ritiene opportuno, fare le manifestazioni che crede utili, tenere i
discorsi che i suoi bisogni o le sue passioni gli dettano. Nessuno vi si
opporrà. Il governo prenderà solo una preoccupazione: far sparire dalla pubblica
via la mezza dozzina di gendarmi e il pugno di agenti di polizia in uniforme
che sono destinati ad arrestare i ladri, a far rispettare il codice della
strada, a sedare le risse; infatti, né gendarmi né agenti municipali esercitano
sorveglianza politica.
Tutto questo dipende da che la forza, qui, è di fatto
nelle mani del popolo. Intendo per popolo l’insieme della nazione. Solo il
popolo è armato, l’autorità è disarmata. Quest’ultima non è affatto la forza, è
solo l’esecuzione: dà esecuzione alle leggi, ma quando si tratta di mettere
mano a uno dei diritti del popolo, a uno dei fondamenti della costituzione,
allora non può decidere nulla. L’autorità può solo proporre, il popolo accetta
o rifiuta il cambiamento avendone coscienza di causa, perché ha tutti i mezzi
per farsi un’idea sulla questione, sempre circoscritta, che gli viene
sottoposta: grazie ai giornali, grazie alle riunioni, grazie all’abitudine alla
libertà.
La polizia a Ginevra, benché poco appariscente, è
molto ben fatta. Non c’è nessun paese dove le persone e le proprietà – per
utilizzare la formula consacrata – siano più sicure. Questo deriva senz’altro
dal fatto che la polizia si occupa solo di malfattori. E deve essere proprio
così, poiché non conosco città che si trovi, sotto questo aspetto, piazzata in
condizioni più sfavorevoli. In effetti, osservate questo cantone, guardate
com’è piccolo, notate che è tutto di frontiera, che è separato dal resto della
Svizzera, la cui prossimità invece gli darebbe forza. Aggiungiamo che: sulle
sue frontiere, non conserva nessuna forza armata; qualsiasi individuo può
passare senza passaporto; la libertà di cui si gode in questa repubblica vi
attira una folla di stranieri; i rifugiati politici dall’Europa intera –
francesi, russi, tedeschi, italiani, spagnoli – vi trovano un asilo garantito;
d’altra parte, una grande quantità di personaggi corrotti – bancarottieri,
falliti, commessi infedeli, ex prefetti dell’Impero – l’attraversano per andare
a cercare asilo altrove, poiché qui non c’è diritto d’asilo per i malfattori;
molti sventurati, gente che ha perduto la propria posizione, ci vengono a
cercar fortuna. Infine, non dimenticate che Ginevra è sempre in preda a una
rovente lotta religiosa, fomentata dal clero cattolico. E allora credereste di
dovervi vedere, in prima linea, tutti gli elementi di disordine e di
insicurezza, a meno di formidabili precauzioni e di una consistente forza
pubblica.
Se Ginevra fosse belga, tedesca, italiana o francese,
si troverebbe di certo sottomessa allo stato d’assedio, per far fronte a tutti
questi pericoli. Ci sarebbero agenti a ogni angolo di strada, posti di guardia
in tutti i quartieri, immense caserme, un cordone ininterrotto di gendarmi alla
frontiera. Ci vorrebbero i passaporti, si sarebbe costretti a una sorta di
minuziosa inquisizione, a mille vessazioni prima di essere ammessi sul suo
territorio, e poi durante il soggiorno. Tutte le libertà sarebbero sospese per
il timore di nomadi, ecc. ecc.
Invece, qui, nulla di simile. Tutto è calmo,
pacifico, regolato e libero. I furti sono estremamente rari, gli omicidi quasi
sconosciuti. La pena di morte è abolita.
E che non si dica che questo è dovuto solo al
carattere del popolo ginevrino, poiché, come ho detto, nella Repubblica di
Ginevra ci sono più stranieri che ginevrini. […] Da dove viene questo miracolo?
Adesso stupirò qualcuno: è la libertà che lo compie.
È che la libertà, anche quella esclusivamente
politica, purché sia abbastanza e rispettata da un potere scrupoloso, è utile a
tutti, e tutti ne traggono profitto.
Ho detto che la polizia è ben fatta. Questo non è
dovuto solo alla sua organizzazione, ma anche all’opinione pubblica. Per
piccola e invisibile che si faccia, benché si contenga nei limiti del suo
ruolo, accettabile, di perseguire i malfattori e di vegliare alla sicurezza
delle strade, la polizia resta la bestia nera dei ginevrini e degli svizzeri in
generale. La vista dell’uniforme li urta. Detestano il gendarme e il poliziotto
municipale, li guardano come un male forse necessario, ma che si subisce solo
circoscrivendolo il più possibile. Ammettono a malincuore, ma infine ammettono,
l’agente della forza pubblica laddove non c’è il popolo; ma nel momento in cui
appare il popolo, l’agente deve sparire. «Dal momento che siamo là – ci dicono
pacatamente gli svizzeri –, non abbiamo più bisogno di lui. Che verrebbe a
fare? A darci noia, a sorvegliarci? Noi non siamo dei bambini. Badiamo a noi da
soli, e faremo noi stessi la nostra polizia, così come l’intendiamo».
Così, non appena la popolazione, per una festa, per
una celebrazione politica o patriottica, per una qualsiasi manifestazione, si
impadronisce della via pubblica, la polizia abbandona la piazza. Non la si vede
più.
Se il ginevrino non ama la polizia visibile, in
uniforme, immaginatevi che cosa pensa dell’agente politico, ch’egli chiama
senza mezzi termini «lo spione». Gli fa l’effetto del rosso sul toro: non si
tiene più.
Le festività pubbliche, naturalmente, non hanno alcun
carattere ufficiale: sono l’opera della popolazione, è lei che fa festa.
Nessuna parata, nessun fuoco d’artificio, a meno che non piaccia ai cittadini
di farne esplodere davanti alla loro porta o sui ponti. Nessun intervento
dall’alto. La popolazione, avvisata, decora strade e case, ci mette tutte le
bandiere immaginabili, accende i lampioni che crede, innalza dove preferisce
degli archi di trionfo fatti di fiori e di fronde, ci attacca motti e brani di
poesia di sua invenzione. Per fare tutto questo, gli abitanti di ciascun
quartiere si mettono d’accordo tra loro, nominano una commissione organizzativa
incaricata di raccogliere i fondi necessari. Il governo non ha nulla a che
farci.
I quartieri ci mettono il loro amor proprio. La riva
sinistra e la riva destra, il sobborgo popolare e quello aristocratico
rivaleggiano per lusso e profusione. Ciascuno ha la sua idea e la sua sorpresa,
la sua iniziativa più o meno felice. Ne deriva un’emulazione che arriva a dei
risultati prodigiosi. La città grigia diventa un palazzo da mille e una notte:
tutto brilla, tutto fiorisce, tranne i monumenti pubblici e ufficiali, di cui
nessuno si occupa e che, la maggior parte delle volte, hanno per unica
decorazione la bandiera nazionale. Gli uomini di potere hanno decorato, a
«proprie spese», il loro domicilio privato, ognuno nel suo quartiere, e se
vogliono godersi la festa, passeggiano per le strade con i loro vicini.
Lo immaginate di già: non c’è nemmeno una sentinella
davanti alla porta del governo, ancor meno un gendarme o un agente della
polizia municipale. I governati vi entrano come a casa loro. C’è un portiere per
dare le indicazioni necessarie, che d’altronde non vi blocca e non vi chiede
mai dove volete andare, se passate davanti a lui senza interrogarlo.
Dovevo parlare al ministro della giustizia e della
polizia.
«Come avete ottenuto udienza?», mi si chiederà.
Ecco come:
Sono andato all’Hôtel de Ville, sono entrato dal
portiere e gli ho chiesto dov’era l’ufficio del ministro della giustizia e
della polizia.
«Secondo piano, porta a destra» mi ha risposto
laconicamente”.
Si trovava a Ginevra, quando lo raggiunse la notizia
dell'amnistia
dei comunardi, decretata in Francia nel luglio del 1880.
Di ritorno dall'esilio, Arnould aderì all'effimera
Alleanza socialista repubblicana, che riuniva radicali e socialisti di estrema
sinistra e il cui programma apparve ne l'Intransigeant del 5 novembre 1881. Ma
l'Alleanza scomparve l'anno seguente. Successivamente lasciò la politica per la
letteratura scrivendo, con lo pseudonimo di A. Matthey (Matthey era il cognome
della moglie Jeanne) numerosi romanzi.
Verso la fine della sua vita, Arnould è cambiato
molto; dopo la morte di sua moglie Jenny, si risposò con la pittrice Delphine
de Cool (1830-1921) e iniziò a frequentare i circoli teosofici. Secondo il
dizionario della biografia francese, accettò di essere decorato nel 1886 con
l'ordine di Isabella la Cattolica e, nei suoi ultimi anni, si occupò di
esoterismo e divenne presidente della Società Teosofica di Parigi e l'editore
di Lotus bleu, l'organo della setta. Scrisse ancora delle memorie su Bakunin
nella Nouvelle Revue del 1° agosto 1891.
É morto a Parigi il 24 o 26 novembre 1895.
Opere
Nel 1877 scrisse L'État et la Révolution (Stato e
Rivoluzione) dove spiega il federalismo e l’idea di Comune dal
punto di vista di proudhoniano, anarchica e autogestita. Nel 1878 Histoire
populaire et parlementaire de la Commune de Paris (Storia popolare e
parlamentare della Comune di
Parigi), che è una testimonianza importante sui personaggi e gli eventi e un
bello studio sull'ideologia della Comune
(l'autonomia, il federalismo, il collettivismo, l'internazionalismo, il
miglioramento delle condizioni di lavoro, il riconoscimento dei diritti delle
donne, l'accesso all'istruzione ...).
Con lo pseudonimo pubblicò Une campagne à «La
Marseillaise»,Le prêtre et l'impôt (1868), Histoire de l'Inquisition (1869) e
infine, dedicatosi alla teosofia nel 1895, Croyances fondamentales du
buddhisme.
Nel 1987 Marc Vuilleumier ha raccolto i ricordi
dell’esilio di Arthur Arnould e di Gustave
Lefrançais e li pubblicò con il titolo Souvenirs de deux communards
réfugiés à Genève, 1871-1873 (I ricordi di due Comunardi
rifugiati a Ginevra, 1871-1873).
[1] I feuilleton (romanzi d’appendice o storie popolari),
pubblicati sotto il titolo Souvenirs d’un Communard, furono poi rivisti
e raccolti in volume nel 1902, poco dopo la morte di Lefrançais,
da un amico e compagno più giovane, Lucien Descaves (scrittore naturalista e
libertario Parigi,1861 – Parigi 1949): Gustave
Lefrançais, Souvenirs d’un révolutionnaire, préface de Lucien
Descaves, Bruxelles 1902, XII e 604 pp. Nel 1972, è stata realizzata una
seconda edizione, più fedele al testo pubblicato originariamente nel Cri du
peuple: Gustave
Lefrançais,Souvenirs d’un révolutionnaire, texte établi et présenté
par Jan Černy, Futur antérieur, Société Encyclopédique Française Editions de la
Tête de Feuilles, Bordeaux 1972, 498 pp.). Questa seconda edizione si segnala anche per il tentativo
fatto dal curatore di ricostruire l’originalità della figura e della militanza
di Lefrançais.
Vengono sottolineati per esempio i legami con altri personaggi considerati – in
genere dopo che una tradizione, politica e storiografica ha prevalso su
un’altra – «singolari» o «marginali», come Joseph Déjacque (1821-1864), o
ancora le posizioni indipendenti assunte da Lefrançais
dopo la spaccatura in seno alla Prima Internazionale (legato ai «Jurassiens», amico, tra gli altri, di Reclus
e di Kropotkin, si smarcherà tuttavia da una completa «appartenenza anarchica»
pubblicando a Parigi, nel 1887, la brochure Où vont les Anarchistes?).
Infine, pur con tutte le cautele necessarie quando si ha a che fare con souvenirs
e mémoires, le centinaia di pagine di ricordi di Lefrançais,
zeppe di nomi e di circostanze, si segnalano come una fonte importante per il
periodo 1848-1870, anche se non agevole in mancanza di indici dei nomi.
[2] Lefrançais,
Souvenirs d’un révolutionnaire [ed. 1972] cit., p. 373.
[3] Nel dipartimento francese della Mosella nella regione Grand
Est.
[4] Capoluogo del dipartimento
del Maine e Loira nella regione dei Paesi della Loira. Colonia romana e cuore
di un prospero ducato in età medievale, la città fu culla della celebre
famiglia degli Angioini.
[5] Capoluogo della regione
dell'Alsazia-Champagne-Ardenne-Lorena, nel Nord-est della Francia, ed è la sede
ufficiale del Parlamento Europeo.
[6] Città della Francia
centrale, nel dipartimento della Vienne nella regione della Nuova Aquitania.
[7] Per proudhoniani s’intendono
definire i seguaci del filosofo francese Pierre-Joseph
Proudhon, fondato essenzialmente sul mutualismo e sul federalismo, da molti
studiosi inserito impropriamente nell’ambito di quello che Marx
definì socialismo utopistico. L’anarchismo proudhoniano educa i seguaci ad una
società libera e federata, di artigiani e piccoli contadini, che pone al centro
i problemi del credito e del prestito ad interessi limitati. Gli elementi
basilari dell’anarchismo proudhoniano sono il federalismo, il decentramento, il
controllo diretto da parte dei lavoratori, abolizione della proprietà (ma non
del possesso poiché reputato naturale), l'istruzione sotto il controllo degli
insegnanti e dei genitori, l'istruzione legata all’apprendistato ecc.