L'OPERA
DELLA COMUNE
La stampa
Tra i primi provvedimenti del Comitato
Centrale, all'indomani del 18
marzo, vi era stato quello di garantire libertà di stampa per tutti, anche
se in maggio, nelle ultime settimane della sua esistenza, la Comune soppresse
tutti i giornali conservatori e reazionari, che del resto continuarono ad
uscire a Versailles,
dove trasferirono le redazioni.
Si stabilì che anche i
non-francesi avevano pieno diritto di cittadinanza nella Comune, dal momento
che in una repubblica universale «tutte
le città hanno il diritto di considerare propri cittadini gli stranieri che la
servono». Avvenne così che due polacchi, Dombrowski
e Wroblewski,
furono tra i comandanti militari e l'ungherese Léo
Frankel uno dei commissari della Comune.
L'esercito permanente venne
abolito con decreto del 29
marzo: nella tradizione di tutti gli Stati esso era utilizzato non solo per
aggredire i popoli stranieri, ma per opprimere gli stessi concittadini.
Pertanto, ad esso subentrò la Guardia
Nazionale, che rappresentò tutto il popolo armato. La polizia venne adibita
all'esclusivo esercizio della repressione dei reati comuni, togliendole ogni
funzione politica.
Per quanto riguarda la
burocrazia, nello stesso decreto venne adottato il provvedimento di eleggere i
funzionari amministrativi, che in tal modo divennero revocabili in qualsiasi
momento. Il loro stipendio massimo era fissato a 6.000 franchi annui: lo
stipendio dei membri
del Consiglio, pari a 5.475 franchi (15 franchi al giorno) era così
inferiore a quello di un dirigente della pubblica amministrazione.
La Comune, come scritto in
altro capitolo, commise il grave errore di non nazionalizzare la Banca di
Francia, la quale possedeva, in marzo, più di due miliardi e mezzo di franchi
tra contanti e titoli. Avendo a disposizione, per le spese correnti, poco più
di quattro milioni e mezzo di franchi, la Comune, nei circa due mesi della sua
esistenza, richiese alla Banca prestiti scaglionati per un importo complessivo
di circa venti milioni, una somma evidentemente minima rispetto alle
disponibilità della Banca di Francia.
Quella di concedere
sovvenzioni ad intermittenza fu una politica suggerita ai governatori della
Banca direttamente da Thiers,
il quale temeva che in caso di resistenze essa fosse nazionalizzata. Versailles,
nello stesso tempo, ottenne sovvenzioni per più di 257 milioni, una somma
superiore di più di dieci volte a quella percepita da Parigi. La responsabilità
di non aver controllato direttamente il maggior organismo finanziario della
Francia va assegnata ai due commissari Charles
Beslay e François
Jourde, ma più in generale al «timore sacro» provato da gran parte degli
uomini della Comune di fronte all'istituzione finanziaria.
Con risorse modeste, la Comune
doveva provvedere a mantenere in funzione i servizi pubblici, dai quali erano
scomparsi i tre quarti degli impiegati; gli ospedali ad esempio, furono
svuotati delle attrezzature dal governo di Versailles
e il personale, composto in gran parte da suore, aveva scarsa volontà di
collaborare. Anche le poste erano da rimettere a posto. Un altro problema era
rappresentato dal tentativo di Thiers
di affamare la città, impedendo che i treni merci raggiungessero Parigi.
La Comune non ebbe il tempo
materiale per organizzare un coerente programma di riforme sociali e dovette
affrontare solo i problemi più urgenti del momento.
Decreto sugli affitti, 29 marzo
Il problema degli alloggi era
certamente uno dei più importanti per una città che aveva subito un lungo
assedio. Il 30
marzo 1871 si decretò che per tre trimestri, dal 1° ottobre 1870 al 30
giugno del 1871, gli affitti non erano dovuti (si trattò dunque di un'esenzione
e non di un rinvio dei pagamenti degli affitti) in quanto «è giusto che anche la proprietà sopporti la sua parte di sacrifici».
Il 25
aprile si requisirono gli alloggi sfitti per assegnarli alle famiglie le
cui abitazioni erano state danneggiate dai bombardamenti delle truppe di Thiers.
Il problema del pagamento
delle cambiali in scadenza, problema particolarmente sentito da artigiani e
piccoli commercianti messi in difficoltà dal crollo dei consumi verificatosi
durante l'assedio, fu preso in considerazione dal 19
marzo con l'emanazione di un decreto di rinvio delle scadenze, e il 18
aprile fu stabilito che i pagamenti dovevano essere effettuati dal 15
luglio, in tre anni e senza interessi.
Quello del pignoramento degli
oggetti depositati al Monte di Pietà era un altro problema che assillava gran
parte della popolazione che, vivendo in generale povertà, era far uso impegnare
le poche cose di valore nei momenti di particolare difficoltà. Il direttore del
Monte di Pietà aveva annunciato, il 20
marzo, la vendita all'asta, a partire dal 1°
aprile, degli oggetti pignorati. Sulla questione ci furono delle divisioni
tra coloro che volevano abolire immediatamente il Monte di Pietà «sia per l'immoralità del principio che li
regge, sia per l'assoluta inefficacia del loro funzionamento economico».
Dopo un decreto di sospensione delle aste, emanato il 29
marzo, fu deciso il 7
maggio di concedere la restituzione gratuita degli oggetti impegnati di
prima necessità di un valore pari o inferiore ai 20 franchi: la Comune si
assumeva l'onere di rimborsare il Monte, per una spesa che superava i 300.000 franchi.
Per affrontare il problema
della disoccupazione, aumentata a seguito della fuga da Parigi dei proprietari
di aziende grandi e piccole, il 16
aprile la commissione lavoro istituì una commissione d'inchiesta, a cura
delle camere sindacali, che fece un elenco delle officine e laboratori
inattivi, inventariò i loro beni e provvide a costituire cooperative di
lavoratori che ne presero possesso. Un tribunale arbitrale avrebbe poi
commisurato l'entità degli indennizzi spettanti ai proprietari.
Il 27
aprile un decreto stabilì la soppressione delle multe sui salari operai
(un'abitudine del padronato del Secondo
Impero) e impose la restituzione di quelle inflitte dopo il 18
marzo.
Decreto sulla soppressione delle
multe sui salari operai
Dallo stesso 27
aprile venne stabilita la soppressione del lavoro notturno nelle
panetterie: a seguito della resistenza dei proprietari dei forni, l'entrata in
vigore del decreto fu spostata al 3
maggio, confiscando i prodotti di quelle panetterie che continuarono ad
ignorare il provvedimento.
Decreto sulla soppressione del lavoro notturno, 20 aprile
Il 12
maggio si stabilì che nelle gare di appalto si privilegino le corporazioni
operaie e che i prezzi vengano stabiliti in accordo tra le corporazioni,
l'intendenza e la commissione lavoro. Nello stesso decreto, considerando che
«durante l'assedio alcuni funzionari e benestanti hanno goduto degli stessi
redditi fruiti in tempi normali», si impose il versamento degli interessi nelle
casse municipali.
L'8
aprile fu decretata l'erogazione di una pensione a tutti i feriti, e il 10
aprile agli orfani e alle vedove delle guardie nazionali cadute in
combattimento, senza fare distinzioni tra mogli legittime o «illegittime» e tra
figli legittimi o naturali (“Versailles si incaricò, con le condanne di morte, di
quelle pensioni” - Louise
Michel: La
Comune).
Fu stabilito anche che la
donna, che, poggiandosi su prove inarrestabili, avesse chiesto la separazione di corpo contro il proprio marito, aveva
diritto alla pensione alimentare.
Il 23
aprile l'unione dei meccanici e l'associazione dei metallurgici invitarono
le altre corporazioni operaie a nominare propri delegati alla commissione
d'inchiesta, mentre davano ai propri delegati il mandato di agire per «porre
fine allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo» e per «organizzare il
lavoro mediante associazioni che posseggono collettivamente un capitale
inalienabile».
Gustave Courbet
Fin da marzo era stata
avanzata la questione dell'istruzione. La «Società per una nuova educazione»
aveva richiesto alla Comune la separazione della scuola dalla Chiesa (nessuna
istruzione religiosa e nessun oggetto di culto negli edifici scolastici) e
l'istruzione obbligatoria, gratuita e impostata su basi scientifiche. La Comune
si era dichiarata d'accordo e dal 21
aprile la Commissione istruzione si occupò del problema.
Il 19
maggio fu emanato il decreto sulla laicità della scuola. Nel suo manifesto
del 18
maggio il commissario Édouard
Vaillant aveva scritto che «il
carattere essenzialmente socialista della rivoluzione comunale doveva poggiare
su una riforma dell'insegnamento che garantisca a ciascuno la vera base
dell'eguaglianza sociale, ossia l'istruzione integrale alla quale ogni
cittadino ha diritto». Il 21
maggio furono raddoppiati gli stipendi dei maestri e a questi furono
parificate le retribuzioni delle maestre.
Furono istituiti due nuovi
istituti professionali, di cui uno femminile in rue Dupuytren. Alcuni municipi
di rione avevano già anticipato il decreto del Consiglio.
Il 3°
arrondissement istituì un asilo per 94 bambini, laicizzò tre scuole dirette
da congregazioni religiose e, per realizzare in parte il principio della
gratuità dell'istruzione, fornì gratuitamente i materiali scolastici. Il 5°
arrondissement rese laica la scuola elementare di rue Rollin, il 13°
arrondissement quella del faubourg Saint-Martin.
Parigi era da decenni
all'avanguardia, in Europa e perciò nel mondo, in campo artistico. Furono i
pre-impressionisti della Scuola di Barbizon[1], poi gli
impressionisti come Manet
e i realisti come Courbet
che s'incaricarono di regolare definitivamente i conti con la vecchia pittura
accademica e retorica cara al Regime, che infatti non accettava le loro opere
nelle esposizioni ufficiali dei Salon[2].
Il 25
marzo 1871 la Comune decise di riaprire i musei, rimasti chiusi durante
l'assedio, incaricandone il pittore Gustave
Courbet, eletto in un'assemblea presidente della Federazione
degli artisti di Parigi. La Comune s'impegnò a favorire la libera
espansione dell'arte, senza porre tutele, e a garantirne l'insegnamento.
La colonna Vendôme abbattuta il 16 maggio 1871
Il nome di Courbet
è rimasto legato all'episodio dell'abbattimento
della colonna Vendôme. Di questa colonna, imitazione della colonna Traiana,
fatta erigere da Napoleone I nel 1810 a celebrazione di se stesso e della
Grande Armée, si era già chiesto da molti l'abbattimento fin dal settembre del
1870, alla caduta
dell'Impero e alla conseguente proclamazione
della Repubblica e Courbet
era solo uno dei tanti che la considerava un odioso simbolo di un passato
deprecato e da cancellare, in quanto “un monumento di barbarie, un simbolo
di forza bruta e di falsa gloria, un'affermazione del militarismo, una
negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai
vinti, un attentato perpetuo a uno dei tre grandi principi della Repubblica
francese, la Fraternità”. Nel Journal
Officiel della Comune di Parigi
aveva scritto: “Considerato che la colonna
Vendôme è un monumento privo di qualsiasi valore artistico e tendente a
perpetuare attraverso la sua espressione le idee di guerra e di conquista
esistenti nella dinastia imperiale, riprovate dal sentimento di una nazione
repubblicana, [il cittadino Courbet]
fa voto che il governo di Difesa nazionale voglia autorizzarlo ad abbattere
questa colonna”. Il governo ignorò la proposta, ma quel progetto fu ripreso
dalla Comune che lo votò il 12
aprile 1871, mettendolo in esecuzione l'8
maggio. Era prevista la vendita a 4 franchi al chilo del materiale, stimato
in 200 tonnellate. Il pomeriggio del 16
maggio, mentre ogni energia sarebbe
dovuta essere rivolta a combattere i versagliesi, la Comune mobilitò uomini e
mezzi per demolire la famosa colonna; gli
argani lavorano dalle tre alle sei del pomeriggio. Fu organizzata una
cerimonia festosa che iniziò al suono della Marsigliese, quando la
colonna si abbatté al suolo e la statua di Napoleone rotolò lontano, la folla inneggiò alla «fine del militarismo»
cantando a squarciagola, intrecciando danze e sturando bottiglie. Aimè,
non sapevano che di la a cinque giorni sarebbe iniziata la «Settimana
sanguinante». Il governo pseudo-repubblicano, succeduto alla repressione
della Comune, rimise in piedi la colonna imperiale addebitando spese e
risarcimenti per 330.000 franchi al pittore, già arrestato il 7 giugno, che
peraltro morì prima di pagare la prima rata dell'assurda somma addebitatagli.
La Comune si occupò anche
della gestione dei teatri. Nella seduta del 19
maggio il Consiglio
della Comune si rifece alla legge del 17 germinale dell'anno II della I Repubblica
(il 6 marzo 1793) che aveva affidato il controllo dei teatri alla commissione
della pubblica istruzione, sottraendolo alle iniziative private degli
impresari.
Nel decreto, alla cui base vi
è l'idea che il teatro sia un istituto di istruzione collettiva, il Consiglio
stabilì che «i teatri sono trasferiti
sotto la competenza della delegazione all'insegnamento. Viene soppressa qualunque
sovvenzione e monopolio dei teatri. La delegazione è incaricata di far cessare
per i teatri il regime dello sfruttamento tramite un direttore e una società, e
di sostituirvi al più presto il regime dell'associazione». Il decreto fu
pubblicato il 21
maggio, il giorno in cui le truppe di Thiers entravano in Parigi per la battaglia decisiva.
Nel conflitto tra governo di Versailles
e Comune, naturalmente la Chiesa cattolica si schierò subito a fianco del
primo. Istituzione profondamente reazionaria fin da quando stabilì una stretta
alleanza con l'Impero romano garantendogli l'indottrinamento delle masse in
cambio della propria sopravvivenza prima e della propria espansione poi,
gestita da una gerarchia di aristocratici, intollerante per la natura dogmatica
dei suoi principi, nella sua storia fu sempre al fianco dei regimi autoritari e
costituì a sua volta un regime, quello dello Stato pontificio, nel quale la
miseria della popolazione era pari solo alla sua ignoranza.
Al tempo della Comune regnava ancora Pio IX, tenuto
per venti anni sul trono grazie all'appoggio di Napoleone
III il quale, nel 1850, con la legge Falloux aveva garantito alla Chiesa pressoché
il monopolio dell'istruzione. Con il decreto del 3
aprile 1871 il Consiglio
della Comune abrogò il Concordato napoleonico e affermò che «la libertà è
il principio basilare della Repubblica francese» e «la libertà di coscienza è
la prima delle libertà», rilevava come «il clero è stato complice dei crimini
della monarchia contro la libertà». Proclamava all'articolo 1 la separazione
dello Stato dalla Chiesa, all'articolo 2 la soppressione del bilancio dei
culti, e all'articolo 3 stabiliva che «i cosiddetti beni di manomorta (mobili o
immobili) appartenenti alle congregazioni religiose» fossero dichiarati
«proprietà nazionale».
Decreto del 3 aprile 1871 di separazione tra Stato e Chiesa
L'8
aprile fu deciso di dare il bando dalle scuole a tutti i simboli religiosi,
immagini, dogmi, preghiere, insomma a tutto ciò che appartiene al campo della
coscienza individuale.
Benché rimanesse garantita la
libertà di culto, molti parroci abbandonarono le chiese, e questo fatto spinse
i club rivoluzionari ad utilizzarle per le loro riunioni, facendo gridare al
«sacrilegio» la stampa schierata contro la Comune. In altre chiese il culto
poteva svolgersi la mattina, mentre la sera divenivano locali di riunioni dei club.
A Parigi vi erano 69 chiese cattoliche. Una dozzina furono chiuse con
l'accusa di svolgervi attività contro-rivoluzionarie, come avvenne per la chiesa
di Saint-Pierre, a Montmartre,
che fu utilizzata come opificio dove 50 operaie confezionavano uniformi
militari. Fu poi adibita a deposito di munizioni, come avvenne anche per Notre-Dame-de-la-Croix
e per Saint-Ambroise,
mentre quella di Saint-Pierre de Montrouge fu utilizzata come bastione e
durante la Settimana
sanguinante fu teatro di una battaglia accanita tra Federati
e versagliesi, che fucilarono tutti i prigionieri.
Il passaggio dall'insegnamento
confessionale a quello laico, benché auspicato, non si poté attuare per diversi
motivi, primo fra tutti la mancanza di tempo, poi per una certa forza d'inerzia
e per la resistenza del personale religioso.
Il ruolo femminile: l'Unione
delle donne
Le donne di Parigi
cominciarono a svolgere un'attività importante già all'inizio della guerra con
la Prussia, quando molti uomini furono impegnati al fronte e si crearono i
comitati di quartiere e i club. Le
donne parteciparono alle azioni più significative che precedettero la vittoria
della Comune, quali quelle del 31
ottobre 1870, del 22
gennaio e del 18
marzo, quando furono le prime ad opporsi al colpo di mano tentato dai
versagliesi a Montmartre.
Con la Comune venne ripreso il
tema dell'emancipazione femminile: la sua messa in pratica passò attraverso il
lavoro e così il 12
maggio 1871 venne inaugurata la prima scuola professionale femminile di
arte industriale, mentre la scrittrice Marguerite
Tinayre venne nominata ispettrice generale delle scuole parigine. Altre
iniziative prese dalla Comune che riguardavano, direttamente o indirettamente,
le donne, furono la proibizione dell'esercizio della prostituzione,
l'organizzazione degli asili, l'abolizione, decretata il 17
maggio, della distinzione tra figli legittimi e illegittimi, la concessione
di un'indennità alle mogli, o conviventi, delle guardie nazionali.
Un’associazione chiamata «Unione
delle donne» era stata
fondata durante l'assedio di Parigi, strutturata nei comitati di quartiere e
con un comitato centrale.
Poco dopo
l'attacco condotto dalle forze di Versailles
a Neully, l'11
aprile apparve sul Journal
Officiel un «Appello alle cittadine di
Parigi»,
redatto l'8
aprile e firmato «Un gruppo di
cittadine», nel quale, preso atto che la guerra con le forze di Versailles
era iniziata e che bisognava «vincere o
morire», si tracciavano le linee di un programma rivolto espressamente alle
donne: «Niente doveri senza diritti,
niente diritti senza doveri. Vogliamo il lavoro, ma per conservarne il
prodotto. Non più sfruttatori né padroni. Lavoro e benessere per tutti.
Autogoverno del popolo [...]». S'invitavano infine le cittadine parigine a
riunirsi quella sera al Grand Café de la Nation in rue du Temple 79.
Qui fu fondata l'Union
des Femmes pour la Défense de Paris et les soins aux blessés - Unione
delle donne per la difesa di Parigi e le cure ai feriti. Quest'associazione
assorbì una precedente Unione
delle donne, e aprì proprie sezioni nei diversi rioni di Parigi.
Nello statuto, le aderenti,
che si distinguevano nell'abito indossando una sciarpa e un bracciale rosso, si
impegnavano a riunirsi tutti i giorni e di presentare un rapporto scritto degli
avvenimenti della giornata. Si prevedeva anche l'uso delle armi in caso di
necessità, l'acquisto di petrolio (da qui l'appellativo di petroleuses
dato a molte Comunarde),
il rifornimento per i combattenti delle barricate e l'assistenza ai feriti.
Molte furono le donne che combatterono in prima fila sulle barricate.
Ma l'Unione
e in generale le donne di Parigi si occuparono soprattutto dei problemi sociali
e politici: il 3
maggio una petizione, firmata da 85 operaie e indirizzata alla commissione
lavoro della Comune, chiese di lavorare in ottemperanza della circolare della
stessa commissione, datata 10
aprile, che prevedeva l'apertura in ogni arrondissement
di una fabbrica espressamente adibita al lavoro femminile.
Il 21
maggio, quando l'esercito di Versailles
entrò a Parigi e tutti furono impegnati nei combattimenti: “parecchie donne combattevano in trincea,
alcune vestite anche con la divisa della Guardia
Nazionale. Non si contavano le vivandiere. Si sa di una diecina uccise in
battaglia”. Un giornalista del Vengeur, assistendo il 24
maggio ai combattimenti della «Settimana
sanguinante», scriveva di aver già visto “tre rivoluzioni, ma per la prima volta vedo donne e bambini combattere.
Sembra che questa rivoluzione sia proprio la loro e lottando, esse lottano per
il proprio avvenire”. Infatti, anche ragazzi dai 12 ai 15 anni combatterono
sulle barricate: ne saranno arrestati 651 e inviati per lo più in case di
correzione.
Le Comunarde
furono molto impegnate nelle lotte per le conquiste sociali e per
l'emancipazione femminile. Esse rivendicavano la piena uguaglianza dei sessi: «Qualsiasi diseguaglianza e qualsiasi
antagonismo tra i sessi costituisce una delle basi del potere delle classi
dominanti [...] Uguaglianza dei salari, diritto al divorzio per le donne,
diritto all'istruzione laica ed alla formazione professionale per le ragazze».
Molte di loro furono arrestate, processate e detenute nelle prigioni francesi.
Un documento racconta le condizioni di vita di una Comunarda
francese detenuta in carcere, l'insegnante Celeste Hardouin: denunciata in modo
anonimo, fu fermata il 7 luglio 1871 e liberata il 17 ottobre dello stesso
anno, dopo il pagamento di una cauzione. La sua «colpa» fu quella di avere
assistito due volte alle riunioni del club della
rivoluzione sociale nella chiesa Saint-Michel del Batignolles.
Le donne del popolo videro
nella Comune la loro alleata naturale, la rivendicatrice dei loro diritti,
combatterono con essa e per essa eroicamente. Basti citare Louise
Michel, di cui gli stessi, che non ne approvavano le idee e i sentimenti,
ammirarono pur tuttavia il carattere, la fermezza, l’abnegazione e la forza
magnanima di sacrificio.
Ecco una proclamazione della Michel:
– Cittadine –
dicevano le rivoluzionarie federate della Comune, indirizzandosi alle donne di
Parigi – sopporteremo noi più a lungo che la miseria e l’ignoranza facciano dei
nostri figli dei nemici, che padre contro figlio, fratello contro fratello,
vengano ad uccidersi fra loro sotto i nostri occhi pel capriccio dei nostri
oppressori?
Cittadine,
noi vogliamo essere libere!
Che le madri,
che le donne, le quali, si dicono «che m’importa del trionfo della nostra causa
se debbo perdere coloro che amo?» si persuadano finalmente che il solo modo di
salvare coloro che hanno cari – il marito, in cui vedono il loro sostegno – il
figlio, in cui mettono la loro speranza – è quello di prendere una parte attiva
al combattimento impegnato per far cessare finalmente una lotta fratricida, che
ricomincerà in un prossimo avvenire, se il popolo non trionfa.
Guai alle
madri, se una volta ancora il popolo soccombesse! Questa disfatta sarebbe
pagata dai loro piccoli figli!
Cittadine,
tutte risolute, tutte unite, vegliamo alla sicurezza della nostra causa!
E se gl’infami,
che fucilano i prigionieri ed assassinano i nostri capi, mitraglieranno una
folla di donne inermi, tanto meglio!
L’orrore e
l’indignazione della Francia e del mondo compieranno ciò che noi abbiamo
incominciato!
Appello dell'Unione delle donne alle operaie di Parigi 18 maggio 1871
[1] Con il termine scuola di
Barbizon o Barbisonniers si identifica un gruppo di pittori e una corrente
paesaggista del realismo collegata alla località di Barbizon in Francia, non
lontana dalla foresta di Fontainebleau.
[2] Il Salon de peinture et de sculpture (Salone della
pittura e della scultura), chiamato genericamente le Salon, era un ex
evento artistico che si teneva a Parigi dalla fine del diciassettesimo secolo,
che esponeva le opere di artisti originariamente approvati dalla Reale
accademia di pittura e scultura creata da Mazzarino, poi dall'Accademia di
Belle Arti, fino al 1880. L'obiettivo iniziale del Salon era presentare al
pubblico le opere degli ultimi vincitori dell'Accademia e, dal 1817, della
Scuola di Belle Arti. Il primo evento, iniziato nel 1673 al Palais Royal, fu
chiamato «l'Exposition». Dal 1692, le opere dei vari artisti approvati
furono presentate al Louvre e la mostra annuale organizzata dall'Accademia dal
1737 prese il nome di «Sallon», perché si svolgeva nella "piazza del
Louvre". Verso il 1750, prese il nome di «Salone dell'Accademia Reale di
Pittura e Scultura», quindi, con la Rivoluzione, l'Accademia venne soppressa,
diventò il "Salone della pittura e della scultura" e venne
democratizzata con l’apertura ad artisti di tutte le origini sotto l'impulso dei
pittori Jacques-Louis David e Jean-Bernard Restout. Diventò il «Salon de
l'académie royale» dopo il 1815, e riprese il nome di «Salon de peinture
et de sculpture» sotto la Seconda Repubblica, fino al 1880 quando prese il
nome di « Salon des artistes français», nel momento in cui finì il
monopolio statale.
La stampa
Tra i primi provvedimenti del Comitato
Centrale, all'indomani del 18
marzo, vi era stato quello di garantire libertà di stampa per tutti, anche
se in maggio, nelle ultime settimane della sua esistenza, la Comune soppresse
tutti i giornali conservatori e reazionari, che del resto continuarono ad
uscire a Versailles,
dove trasferirono le redazioni.
Si stabilì che anche i
non-francesi avevano pieno diritto di cittadinanza nella Comune, dal momento
che in una repubblica universale «tutte
le città hanno il diritto di considerare propri cittadini gli stranieri che la
servono». Avvenne così che due polacchi, Dombrowski
e Wroblewski,
furono tra i comandanti militari e l'ungherese Léo
Frankel uno dei commissari della Comune.
L'esercito permanente venne
abolito con decreto del 29
marzo: nella tradizione di tutti gli Stati esso era utilizzato non solo per
aggredire i popoli stranieri, ma per opprimere gli stessi concittadini.
Pertanto, ad esso subentrò la Guardia
Nazionale, che rappresentò tutto il popolo armato. La polizia venne adibita
all'esclusivo esercizio della repressione dei reati comuni, togliendole ogni
funzione politica.
Per quanto riguarda la
burocrazia, nello stesso decreto venne adottato il provvedimento di eleggere i
funzionari amministrativi, che in tal modo divennero revocabili in qualsiasi
momento. Il loro stipendio massimo era fissato a 6.000 franchi annui: lo
stipendio dei membri
del Consiglio, pari a 5.475 franchi (15 franchi al giorno) era così
inferiore a quello di un dirigente della pubblica amministrazione.
La Comune, come scritto in
altro capitolo, commise il grave errore di non nazionalizzare la Banca di
Francia, la quale possedeva, in marzo, più di due miliardi e mezzo di franchi
tra contanti e titoli. Avendo a disposizione, per le spese correnti, poco più
di quattro milioni e mezzo di franchi, la Comune, nei circa due mesi della sua
esistenza, richiese alla Banca prestiti scaglionati per un importo complessivo
di circa venti milioni, una somma evidentemente minima rispetto alle
disponibilità della Banca di Francia.
Quella di concedere
sovvenzioni ad intermittenza fu una politica suggerita ai governatori della
Banca direttamente da Thiers,
il quale temeva che in caso di resistenze essa fosse nazionalizzata. Versailles,
nello stesso tempo, ottenne sovvenzioni per più di 257 milioni, una somma
superiore di più di dieci volte a quella percepita da Parigi. La responsabilità
di non aver controllato direttamente il maggior organismo finanziario della
Francia va assegnata ai due commissari Charles
Beslay e François
Jourde, ma più in generale al «timore sacro» provato da gran parte degli
uomini della Comune di fronte all'istituzione finanziaria.
Con risorse modeste, la Comune
doveva provvedere a mantenere in funzione i servizi pubblici, dai quali erano
scomparsi i tre quarti degli impiegati; gli ospedali ad esempio, furono
svuotati delle attrezzature dal governo di Versailles
e il personale, composto in gran parte da suore, aveva scarsa volontà di
collaborare. Anche le poste erano da rimettere a posto. Un altro problema era
rappresentato dal tentativo di Thiers
di affamare la città, impedendo che i treni merci raggiungessero Parigi.
La Comune non ebbe il tempo
materiale per organizzare un coerente programma di riforme sociali e dovette
affrontare solo i problemi più urgenti del momento.
Decreto sugli affitti, 29 marzo |
Il problema degli alloggi era
certamente uno dei più importanti per una città che aveva subito un lungo
assedio. Il 30
marzo 1871 si decretò che per tre trimestri, dal 1° ottobre 1870 al 30
giugno del 1871, gli affitti non erano dovuti (si trattò dunque di un'esenzione
e non di un rinvio dei pagamenti degli affitti) in quanto «è giusto che anche la proprietà sopporti la sua parte di sacrifici».
Il 25
aprile si requisirono gli alloggi sfitti per assegnarli alle famiglie le
cui abitazioni erano state danneggiate dai bombardamenti delle truppe di Thiers.
Il problema del pagamento
delle cambiali in scadenza, problema particolarmente sentito da artigiani e
piccoli commercianti messi in difficoltà dal crollo dei consumi verificatosi
durante l'assedio, fu preso in considerazione dal 19
marzo con l'emanazione di un decreto di rinvio delle scadenze, e il 18
aprile fu stabilito che i pagamenti dovevano essere effettuati dal 15
luglio, in tre anni e senza interessi.
Quello del pignoramento degli
oggetti depositati al Monte di Pietà era un altro problema che assillava gran
parte della popolazione che, vivendo in generale povertà, era far uso impegnare
le poche cose di valore nei momenti di particolare difficoltà. Il direttore del
Monte di Pietà aveva annunciato, il 20
marzo, la vendita all'asta, a partire dal 1°
aprile, degli oggetti pignorati. Sulla questione ci furono delle divisioni
tra coloro che volevano abolire immediatamente il Monte di Pietà «sia per l'immoralità del principio che li
regge, sia per l'assoluta inefficacia del loro funzionamento economico».
Dopo un decreto di sospensione delle aste, emanato il 29
marzo, fu deciso il 7
maggio di concedere la restituzione gratuita degli oggetti impegnati di
prima necessità di un valore pari o inferiore ai 20 franchi: la Comune si
assumeva l'onere di rimborsare il Monte, per una spesa che superava i 300.000 franchi.
Per affrontare il problema
della disoccupazione, aumentata a seguito della fuga da Parigi dei proprietari
di aziende grandi e piccole, il 16
aprile la commissione lavoro istituì una commissione d'inchiesta, a cura
delle camere sindacali, che fece un elenco delle officine e laboratori
inattivi, inventariò i loro beni e provvide a costituire cooperative di
lavoratori che ne presero possesso. Un tribunale arbitrale avrebbe poi
commisurato l'entità degli indennizzi spettanti ai proprietari.
Il 27
aprile un decreto stabilì la soppressione delle multe sui salari operai
(un'abitudine del padronato del Secondo
Impero) e impose la restituzione di quelle inflitte dopo il 18
marzo.
Decreto sulla soppressione delle
multe sui salari operai
Dallo stesso 27
aprile venne stabilita la soppressione del lavoro notturno nelle
panetterie: a seguito della resistenza dei proprietari dei forni, l'entrata in
vigore del decreto fu spostata al 3
maggio, confiscando i prodotti di quelle panetterie che continuarono ad
ignorare il provvedimento.
Decreto sulla soppressione del lavoro notturno, 20 aprile |
Il 12
maggio si stabilì che nelle gare di appalto si privilegino le corporazioni
operaie e che i prezzi vengano stabiliti in accordo tra le corporazioni,
l'intendenza e la commissione lavoro. Nello stesso decreto, considerando che
«durante l'assedio alcuni funzionari e benestanti hanno goduto degli stessi
redditi fruiti in tempi normali», si impose il versamento degli interessi nelle
casse municipali.
L'8
aprile fu decretata l'erogazione di una pensione a tutti i feriti, e il 10
aprile agli orfani e alle vedove delle guardie nazionali cadute in
combattimento, senza fare distinzioni tra mogli legittime o «illegittime» e tra
figli legittimi o naturali (“Versailles si incaricò, con le condanne di morte, di
quelle pensioni” - Louise
Michel: La
Comune).
Fu stabilito anche che la
donna, che, poggiandosi su prove inarrestabili, avesse chiesto la separazione di corpo contro il proprio marito, aveva
diritto alla pensione alimentare.
Il 23
aprile l'unione dei meccanici e l'associazione dei metallurgici invitarono
le altre corporazioni operaie a nominare propri delegati alla commissione
d'inchiesta, mentre davano ai propri delegati il mandato di agire per «porre
fine allo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo» e per «organizzare il
lavoro mediante associazioni che posseggono collettivamente un capitale
inalienabile».
Gustave Courbet |
Fin da marzo era stata
avanzata la questione dell'istruzione. La «Società per una nuova educazione»
aveva richiesto alla Comune la separazione della scuola dalla Chiesa (nessuna
istruzione religiosa e nessun oggetto di culto negli edifici scolastici) e
l'istruzione obbligatoria, gratuita e impostata su basi scientifiche. La Comune
si era dichiarata d'accordo e dal 21
aprile la Commissione istruzione si occupò del problema.
Il 19
maggio fu emanato il decreto sulla laicità della scuola. Nel suo manifesto
del 18
maggio il commissario Édouard
Vaillant aveva scritto che «il
carattere essenzialmente socialista della rivoluzione comunale doveva poggiare
su una riforma dell'insegnamento che garantisca a ciascuno la vera base
dell'eguaglianza sociale, ossia l'istruzione integrale alla quale ogni
cittadino ha diritto». Il 21
maggio furono raddoppiati gli stipendi dei maestri e a questi furono
parificate le retribuzioni delle maestre.
Furono istituiti due nuovi
istituti professionali, di cui uno femminile in rue Dupuytren. Alcuni municipi
di rione avevano già anticipato il decreto del Consiglio.
Il 3°
arrondissement istituì un asilo per 94 bambini, laicizzò tre scuole dirette
da congregazioni religiose e, per realizzare in parte il principio della
gratuità dell'istruzione, fornì gratuitamente i materiali scolastici. Il 5°
arrondissement rese laica la scuola elementare di rue Rollin, il 13°
arrondissement quella del faubourg Saint-Martin.
Parigi era da decenni
all'avanguardia, in Europa e perciò nel mondo, in campo artistico. Furono i
pre-impressionisti della Scuola di Barbizon[1], poi gli
impressionisti come Manet
e i realisti come Courbet
che s'incaricarono di regolare definitivamente i conti con la vecchia pittura
accademica e retorica cara al Regime, che infatti non accettava le loro opere
nelle esposizioni ufficiali dei Salon[2].
Il 25
marzo 1871 la Comune decise di riaprire i musei, rimasti chiusi durante
l'assedio, incaricandone il pittore Gustave
Courbet, eletto in un'assemblea presidente della Federazione
degli artisti di Parigi. La Comune s'impegnò a favorire la libera
espansione dell'arte, senza porre tutele, e a garantirne l'insegnamento.
La colonna Vendôme abbattuta il 16 maggio 1871 |
Il nome di Courbet
è rimasto legato all'episodio dell'abbattimento
della colonna Vendôme. Di questa colonna, imitazione della colonna Traiana,
fatta erigere da Napoleone I nel 1810 a celebrazione di se stesso e della
Grande Armée, si era già chiesto da molti l'abbattimento fin dal settembre del
1870, alla caduta
dell'Impero e alla conseguente proclamazione
della Repubblica e Courbet
era solo uno dei tanti che la considerava un odioso simbolo di un passato
deprecato e da cancellare, in quanto “un monumento di barbarie, un simbolo
di forza bruta e di falsa gloria, un'affermazione del militarismo, una
negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai
vinti, un attentato perpetuo a uno dei tre grandi principi della Repubblica
francese, la Fraternità”. Nel Journal
Officiel della Comune di Parigi
aveva scritto: “Considerato che la colonna
Vendôme è un monumento privo di qualsiasi valore artistico e tendente a
perpetuare attraverso la sua espressione le idee di guerra e di conquista
esistenti nella dinastia imperiale, riprovate dal sentimento di una nazione
repubblicana, [il cittadino Courbet]
fa voto che il governo di Difesa nazionale voglia autorizzarlo ad abbattere
questa colonna”. Il governo ignorò la proposta, ma quel progetto fu ripreso
dalla Comune che lo votò il 12
aprile 1871, mettendolo in esecuzione l'8
maggio. Era prevista la vendita a 4 franchi al chilo del materiale, stimato
in 200 tonnellate. Il pomeriggio del 16
maggio, mentre ogni energia sarebbe
dovuta essere rivolta a combattere i versagliesi, la Comune mobilitò uomini e
mezzi per demolire la famosa colonna; gli
argani lavorano dalle tre alle sei del pomeriggio. Fu organizzata una
cerimonia festosa che iniziò al suono della Marsigliese, quando la
colonna si abbatté al suolo e la statua di Napoleone rotolò lontano, la folla inneggiò alla «fine del militarismo»
cantando a squarciagola, intrecciando danze e sturando bottiglie. Aimè,
non sapevano che di la a cinque giorni sarebbe iniziata la «Settimana
sanguinante». Il governo pseudo-repubblicano, succeduto alla repressione
della Comune, rimise in piedi la colonna imperiale addebitando spese e
risarcimenti per 330.000 franchi al pittore, già arrestato il 7 giugno, che
peraltro morì prima di pagare la prima rata dell'assurda somma addebitatagli.
La Comune si occupò anche
della gestione dei teatri. Nella seduta del 19
maggio il Consiglio
della Comune si rifece alla legge del 17 germinale dell'anno II della I Repubblica
(il 6 marzo 1793) che aveva affidato il controllo dei teatri alla commissione
della pubblica istruzione, sottraendolo alle iniziative private degli
impresari.
Nel decreto, alla cui base vi
è l'idea che il teatro sia un istituto di istruzione collettiva, il Consiglio
stabilì che «i teatri sono trasferiti
sotto la competenza della delegazione all'insegnamento. Viene soppressa qualunque
sovvenzione e monopolio dei teatri. La delegazione è incaricata di far cessare
per i teatri il regime dello sfruttamento tramite un direttore e una società, e
di sostituirvi al più presto il regime dell'associazione». Il decreto fu
pubblicato il 21
maggio, il giorno in cui le truppe di Thiers entravano in Parigi per la battaglia decisiva.
Nel conflitto tra governo di Versailles
e Comune, naturalmente la Chiesa cattolica si schierò subito a fianco del
primo. Istituzione profondamente reazionaria fin da quando stabilì una stretta
alleanza con l'Impero romano garantendogli l'indottrinamento delle masse in
cambio della propria sopravvivenza prima e della propria espansione poi,
gestita da una gerarchia di aristocratici, intollerante per la natura dogmatica
dei suoi principi, nella sua storia fu sempre al fianco dei regimi autoritari e
costituì a sua volta un regime, quello dello Stato pontificio, nel quale la
miseria della popolazione era pari solo alla sua ignoranza.
Al tempo della Comune regnava ancora Pio IX, tenuto
per venti anni sul trono grazie all'appoggio di Napoleone
III il quale, nel 1850, con la legge Falloux aveva garantito alla Chiesa pressoché
il monopolio dell'istruzione. Con il decreto del 3
aprile 1871 il Consiglio
della Comune abrogò il Concordato napoleonico e affermò che «la libertà è
il principio basilare della Repubblica francese» e «la libertà di coscienza è
la prima delle libertà», rilevava come «il clero è stato complice dei crimini
della monarchia contro la libertà». Proclamava all'articolo 1 la separazione
dello Stato dalla Chiesa, all'articolo 2 la soppressione del bilancio dei
culti, e all'articolo 3 stabiliva che «i cosiddetti beni di manomorta (mobili o
immobili) appartenenti alle congregazioni religiose» fossero dichiarati
«proprietà nazionale».
Decreto del 3 aprile 1871 di separazione tra Stato e Chiesa |
L'8
aprile fu deciso di dare il bando dalle scuole a tutti i simboli religiosi,
immagini, dogmi, preghiere, insomma a tutto ciò che appartiene al campo della
coscienza individuale.
Benché rimanesse garantita la
libertà di culto, molti parroci abbandonarono le chiese, e questo fatto spinse
i club rivoluzionari ad utilizzarle per le loro riunioni, facendo gridare al
«sacrilegio» la stampa schierata contro la Comune. In altre chiese il culto
poteva svolgersi la mattina, mentre la sera divenivano locali di riunioni dei club.
A Parigi vi erano 69 chiese cattoliche. Una dozzina furono chiuse con
l'accusa di svolgervi attività contro-rivoluzionarie, come avvenne per la chiesa
di Saint-Pierre, a Montmartre,
che fu utilizzata come opificio dove 50 operaie confezionavano uniformi
militari. Fu poi adibita a deposito di munizioni, come avvenne anche per Notre-Dame-de-la-Croix
e per Saint-Ambroise,
mentre quella di Saint-Pierre de Montrouge fu utilizzata come bastione e
durante la Settimana
sanguinante fu teatro di una battaglia accanita tra Federati
e versagliesi, che fucilarono tutti i prigionieri.
Il passaggio dall'insegnamento
confessionale a quello laico, benché auspicato, non si poté attuare per diversi
motivi, primo fra tutti la mancanza di tempo, poi per una certa forza d'inerzia
e per la resistenza del personale religioso.
Il ruolo femminile: l'Unione
delle donne
Le donne di Parigi
cominciarono a svolgere un'attività importante già all'inizio della guerra con
la Prussia, quando molti uomini furono impegnati al fronte e si crearono i
comitati di quartiere e i club. Le
donne parteciparono alle azioni più significative che precedettero la vittoria
della Comune, quali quelle del 31
ottobre 1870, del 22
gennaio e del 18
marzo, quando furono le prime ad opporsi al colpo di mano tentato dai
versagliesi a Montmartre.
Con la Comune venne ripreso il
tema dell'emancipazione femminile: la sua messa in pratica passò attraverso il
lavoro e così il 12
maggio 1871 venne inaugurata la prima scuola professionale femminile di
arte industriale, mentre la scrittrice Marguerite
Tinayre venne nominata ispettrice generale delle scuole parigine. Altre
iniziative prese dalla Comune che riguardavano, direttamente o indirettamente,
le donne, furono la proibizione dell'esercizio della prostituzione,
l'organizzazione degli asili, l'abolizione, decretata il 17
maggio, della distinzione tra figli legittimi e illegittimi, la concessione
di un'indennità alle mogli, o conviventi, delle guardie nazionali.
Un’associazione chiamata «Unione
delle donne» era stata
fondata durante l'assedio di Parigi, strutturata nei comitati di quartiere e
con un comitato centrale.
Poco dopo
l'attacco condotto dalle forze di Versailles
a Neully, l'11
aprile apparve sul Journal
Officiel un «Appello alle cittadine di
Parigi»,
redatto l'8
aprile e firmato «Un gruppo di
cittadine», nel quale, preso atto che la guerra con le forze di Versailles
era iniziata e che bisognava «vincere o
morire», si tracciavano le linee di un programma rivolto espressamente alle
donne: «Niente doveri senza diritti,
niente diritti senza doveri. Vogliamo il lavoro, ma per conservarne il
prodotto. Non più sfruttatori né padroni. Lavoro e benessere per tutti.
Autogoverno del popolo [...]». S'invitavano infine le cittadine parigine a
riunirsi quella sera al Grand Café de la Nation in rue du Temple 79.
Qui fu fondata l'Union
des Femmes pour la Défense de Paris et les soins aux blessés - Unione
delle donne per la difesa di Parigi e le cure ai feriti. Quest'associazione
assorbì una precedente Unione
delle donne, e aprì proprie sezioni nei diversi rioni di Parigi.
Nello statuto, le aderenti,
che si distinguevano nell'abito indossando una sciarpa e un bracciale rosso, si
impegnavano a riunirsi tutti i giorni e di presentare un rapporto scritto degli
avvenimenti della giornata. Si prevedeva anche l'uso delle armi in caso di
necessità, l'acquisto di petrolio (da qui l'appellativo di petroleuses
dato a molte Comunarde),
il rifornimento per i combattenti delle barricate e l'assistenza ai feriti.
Molte furono le donne che combatterono in prima fila sulle barricate.
Ma l'Unione
e in generale le donne di Parigi si occuparono soprattutto dei problemi sociali
e politici: il 3
maggio una petizione, firmata da 85 operaie e indirizzata alla commissione
lavoro della Comune, chiese di lavorare in ottemperanza della circolare della
stessa commissione, datata 10
aprile, che prevedeva l'apertura in ogni arrondissement
di una fabbrica espressamente adibita al lavoro femminile.
Il 21
maggio, quando l'esercito di Versailles
entrò a Parigi e tutti furono impegnati nei combattimenti: “parecchie donne combattevano in trincea,
alcune vestite anche con la divisa della Guardia
Nazionale. Non si contavano le vivandiere. Si sa di una diecina uccise in
battaglia”. Un giornalista del Vengeur, assistendo il 24
maggio ai combattimenti della «Settimana
sanguinante», scriveva di aver già visto “tre rivoluzioni, ma per la prima volta vedo donne e bambini combattere.
Sembra che questa rivoluzione sia proprio la loro e lottando, esse lottano per
il proprio avvenire”. Infatti, anche ragazzi dai 12 ai 15 anni combatterono
sulle barricate: ne saranno arrestati 651 e inviati per lo più in case di
correzione.
Le Comunarde
furono molto impegnate nelle lotte per le conquiste sociali e per
l'emancipazione femminile. Esse rivendicavano la piena uguaglianza dei sessi: «Qualsiasi diseguaglianza e qualsiasi
antagonismo tra i sessi costituisce una delle basi del potere delle classi
dominanti [...] Uguaglianza dei salari, diritto al divorzio per le donne,
diritto all'istruzione laica ed alla formazione professionale per le ragazze».
Molte di loro furono arrestate, processate e detenute nelle prigioni francesi.
Un documento racconta le condizioni di vita di una Comunarda
francese detenuta in carcere, l'insegnante Celeste Hardouin: denunciata in modo
anonimo, fu fermata il 7 luglio 1871 e liberata il 17 ottobre dello stesso
anno, dopo il pagamento di una cauzione. La sua «colpa» fu quella di avere
assistito due volte alle riunioni del club della
rivoluzione sociale nella chiesa Saint-Michel del Batignolles.
Le donne del popolo videro
nella Comune la loro alleata naturale, la rivendicatrice dei loro diritti,
combatterono con essa e per essa eroicamente. Basti citare Louise
Michel, di cui gli stessi, che non ne approvavano le idee e i sentimenti,
ammirarono pur tuttavia il carattere, la fermezza, l’abnegazione e la forza
magnanima di sacrificio.
Ecco una proclamazione della Michel:
– Cittadine –
dicevano le rivoluzionarie federate della Comune, indirizzandosi alle donne di
Parigi – sopporteremo noi più a lungo che la miseria e l’ignoranza facciano dei
nostri figli dei nemici, che padre contro figlio, fratello contro fratello,
vengano ad uccidersi fra loro sotto i nostri occhi pel capriccio dei nostri
oppressori?
Cittadine,
noi vogliamo essere libere!
Che le madri,
che le donne, le quali, si dicono «che m’importa del trionfo della nostra causa
se debbo perdere coloro che amo?» si persuadano finalmente che il solo modo di
salvare coloro che hanno cari – il marito, in cui vedono il loro sostegno – il
figlio, in cui mettono la loro speranza – è quello di prendere una parte attiva
al combattimento impegnato per far cessare finalmente una lotta fratricida, che
ricomincerà in un prossimo avvenire, se il popolo non trionfa.
Guai alle
madri, se una volta ancora il popolo soccombesse! Questa disfatta sarebbe
pagata dai loro piccoli figli!
Cittadine,
tutte risolute, tutte unite, vegliamo alla sicurezza della nostra causa!
E se gl’infami,
che fucilano i prigionieri ed assassinano i nostri capi, mitraglieranno una
folla di donne inermi, tanto meglio!
L’orrore e
l’indignazione della Francia e del mondo compieranno ciò che noi abbiamo
incominciato!
Appello dell'Unione delle donne alle operaie di Parigi 18 maggio 1871 |
[1] Con il termine scuola di
Barbizon o Barbisonniers si identifica un gruppo di pittori e una corrente
paesaggista del realismo collegata alla località di Barbizon in Francia, non
lontana dalla foresta di Fontainebleau.
[2] Il Salon de peinture et de sculpture (Salone della
pittura e della scultura), chiamato genericamente le Salon, era un ex
evento artistico che si teneva a Parigi dalla fine del diciassettesimo secolo,
che esponeva le opere di artisti originariamente approvati dalla Reale
accademia di pittura e scultura creata da Mazzarino, poi dall'Accademia di
Belle Arti, fino al 1880. L'obiettivo iniziale del Salon era presentare al
pubblico le opere degli ultimi vincitori dell'Accademia e, dal 1817, della
Scuola di Belle Arti. Il primo evento, iniziato nel 1673 al Palais Royal, fu
chiamato «l'Exposition». Dal 1692, le opere dei vari artisti approvati
furono presentate al Louvre e la mostra annuale organizzata dall'Accademia dal
1737 prese il nome di «Sallon», perché si svolgeva nella "piazza del
Louvre". Verso il 1750, prese il nome di «Salone dell'Accademia Reale di
Pittura e Scultura», quindi, con la Rivoluzione, l'Accademia venne soppressa,
diventò il "Salone della pittura e della scultura" e venne
democratizzata con l’apertura ad artisti di tutte le origini sotto l'impulso dei
pittori Jacques-Louis David e Jean-Bernard Restout. Diventò il «Salon de
l'académie royale» dopo il 1815, e riprese il nome di «Salon de peinture
et de sculpture» sotto la Seconda Repubblica, fino al 1880 quando prese il
nome di « Salon des artistes français», nel momento in cui finì il
monopolio statale.