domenica 9 dicembre 2018

02-12 - Riflessioni

RIFLESSIONI



I parigini avevano preso sul serio la montatura patriottica sciorinata da Naopeone III; l'idea della patria era divenuta per il popolo come una seconda religione, mentre per la borghesia rappresentava un affare. Il popolo era pronto a dare per la patria l'unico suo avere, la vita! Ma i borghesi non vollero dare per la patria né la vita, né la loro ricchezza! Parole come armistizio, capitolazione, pace … il popolo, che voleva vincere o morire, non poteva comprenderle! La borghesia invece volle salvarsi e si salvò, passando sulla mutilazione della Francia e sul cadavere del popolo massacrato dalle stesse sue armi fratricide a Parigi!
Il popolo di Parigi si accorse ben tardi che i suoi nemici mortali non erano i prussiani, ma i versagliesi e tutto il suo eroismo, che disciplinato contro gli eserciti teutonici avrebbe portato la Francia alla vittoria, si infranse contro le vili falangi dei generali inoperosi e deboli contro i prussiani, ma tenaci ed energici fino alla più assurda brutalità contro i parigini in rivolta. Quando il popolo di Parigi si vide tradito dai dominatori prima dell'Impero, poi della repubblica borghese di Thiers, non ebbe più freni e come un torrente infuriato inondò, distrusse disperse quanti erano stati causa delle sue sventure, dando vita così ad uno dei momenti più alti, se non il più alto in assoluto della storia dell’umanità: la Comune di Parigi del 1871.
Sono passati da allora quasi 150 anni, ebbene, quale governo ha abolito, come appunto abolì la Comune, il lavoro notturno? Quale concede pensioni a vedove e orfani di guerra, indipendentemente dal fatto che il caduto fosse legalmente sposato o no? Dove si invitano gli operai a tenere corsi ai ragazzi a scuola?
Era il tempo in cui i figli dei poveri già a sei anni entravano in fabbrica per lavorare fino a 16 ore al giorno: e la Comune stabilì l'istruzione obbligatoria e gratuita per tutti. Era il tempo di elezioni (quando c'erano) ristrette a pochi, e la Comune le estese a tutti, dando inoltre al popolo la facoltà di revoca d'ogni carica elettiva. Era il tempo in cui si pensava che le donne, eccezion fatta per le puttane di lusso, mogli e amanti dei grandi personaggi, dovevano nella migliore delle ipotesi restarsene a casa a fare la calza, nella peggiore macerarsi in fabbrica quanto gli uomini con minor paga perché più «deboli». Ebbene, un corrispondente del «Times», parlando delle donne della Comune, commentò: «Se tutta la Francia fosse composta di queste donne, che grande nazione sarebbe». Le troviamo dappertutto: a scuola, negli ospedali, nei circoli politici, sulle barricate. “Vivere libere col fucile, o morire combattendo”, era il loro motto. Quante di esse sono cadute nella difesa della Comune? Il loro numero non è meno elevato di quello degli uomini. All'ufficiale di Versailles, che sta per spararle perché ha ucciso dei soldati, una popolana risponde: «Dio mi punisca per non averne ammazzati di più».
Il decreto sulle officine inattive presentato dal commissario Avrial il 16 aprile, quello che in seguito della «vile fuga» di alcuni proprietari di officine erano cessate molte attività necessarie alla vita della Comune con una grave minaccia alle risorse vitali degli operai, fu di una importanza inaudita, esso fu un passo effettivo verso la rivoluzione sociale, per la prima volta nella storia si requisirono le fabbriche abbandonate e furono affidate a cooperative di lavoratori che ne poterono curare la gestione, fu un esempio pratico di autogestione.
La Comune condonò alcune rate delle pigioni e prorogò di tre anni, senza interessi, il pagamento di tutte le cambiali; parecchi decreti, che andavano dall'apertura di uffici di collocamento comunali alla stipulazione di contratti collettivi, anticiparono la moderna legislazione del lavoro ma rimasero, per forza di cose (72 giorni furono pochi per realizzare tutto), allo stato di virtualità.
La Comune aveva abolito per prima cosa gli alti onorari, molti operai si seppero improvvisare impiegati e ricoprirono il nuovo incarico con grande zelo e competenza. Un operaio cesellatore in bronzo, Albert Frédéric Theisz, il 26 marzo, alla nascita della Comune, fu eletto al Consiglio della Comune e fece parte della Commissione Lavoro e Scambio, il 5 aprile divenne direttore delle poste, trovò un servizio quasi inesistente, disorganizzato, con i valori rubati. Riunì tutti i dipendenti rimasti, li arringò, e li convinse a passare alla Comune; in breve la levata delle lettere e la consegna fu ristabilita in tutta la città, si arrivò anche a far partire la corrispondenza per la provincia a mezzo di agenti abili e coraggiosi; nonostante ciò non esitò a ritornare a combattere con ardore sulle barricate durante la Settimana sanguinante. Sfuggì alla repressione versagliese rifugiandosi a Londra, dove lavorò come operaio e fece parte del Consiglio generale dell’Internazionale. Tornò a Parigi grazie all’amnistia del 1880, dove morì il 10 gennaio 1881. È sepolto al cimitero di Père Lachaise.
Lo steso avvenne alla zecca dove Zéphirin Rémy Camélinat, un operaio anarchico montatore in bronzo, cesellatore nelle decorazioni dell’Operà e amico di Proudhon, aderente alla Guardia Nazionale durante l’assedio di Parigi, il 3 aprile fu nominato direttore della Zecca e per mandare avanti la baracca fece coniare nuove monete da 5 franchi con l’argento dell’argenteria che si requisì. Anche lui si ributtò anima e cuore sulle barricate durante la Settimana sanguinante ed evitò la repressione versagliese rifugiandosi in Inghilterra, mentre la corte marziale lo condannava alla deportazione.
François Jourde, impiegato in uno studio notarile ed eletto il 26 marzo al Consiglio della Comune del 5° arrondissement, il 29 dello stesso mese assunse la funzione di commissario delle finanze, riuscì a presentare un bilancio talmente preciso, oltre che attivo, da costituire un vero gioiello d’amministrazione ed un’eccezione in materia di bilanci pubblici; nella relazione al bilancio lo stato delle finanze della Comune era giudicato florido. In questo lavoro venne assistito da Eugène Varlin: rilegatore, anarchico proudhoniano[1], morto il 28 maggio quando ogni resistenza era ormai cessata, fu riconosciuto da un prete in rue Lafayette e segnalato ai soldati di Versailles che prima lo linciarono e poi lo fucilarono. Gli scrupoli legalitari di Jourde impedirono di confiscare i fondi della Banca di Francia, indebolendo l’azione della Comune contro il governo di Thiers. Fu lui l’autore del decreto che accordava una pensione alle donne, sposate o meno, delle guardie nazionali cadute in combattimento. Arrestato dal governo di Versailles il 30 maggio, fu condannato il 2 settembre alla deportazione nella Nuova Caledonia dove giunse nel novembre del 1872. Nella colonia penale di Nouméa lavorò come contabile e fondò l’«Union», società di mutuo soccorso ai deportati. Evase il 21 marzo del 1874, raggiunse l’Inghilterra, partecipò ad una sottoscrizione per i Comunardi vittime della repressione. Tornò da Londra in Francia con l’amnistia del 1880, senza più occuparsi di politica.
La Comune nacque spontaneamente, favorita da cause concomitanti quali la guerra perduta, le sofferenze dell'assedio, la disoccupazione operaia, la rovina della piccola borghesia, l'indignazione contro un governo inetto e un'Assemblea Nazionale reazionaria. Inizialmente sostenuta da un movimento patriottico che sperava ancora in una guerra vittoriosa, dai piccoli commercianti, dai repubblicani timorosi di un ritorno della monarchia, il peso maggiore fu sostenuto dagli operai e dagli artigiani parigini, che si trovarono soli quando i repubblicani borghesi e i piccoli borghesi se ne staccarono, spaventati dal carattere proletario, rivoluzionario socialista e direi anche libertario del movimento. La necessità di difendersi dall'attacco militare di Versailles concesse poco tempo alle iniziative in campo sociale, ma sufficienti a dimostrare che la Comune e la bandiera rossa sventolante sull'Hôtel de Ville costituivano un pericolo mortale per il vecchio mondo fondato sull'asservimento e sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Il primo decreto della Comune fu la soppressione dell'esercito permanente e la sua sostituzione col popolo armato; veniva, così, a cadere uno dei pilastri su cui si basava tradizionalmente l'autorità dello stato e il popolo in armi assicurava la continuità rivoluzionaria essendo solo esso garante di se stesso.
Nella proclamata Comune non esisteva un baricentro del potere. Le decisioni venivano prese in comune in riunioni cittadine, in «assemblee» come diremmo oggi.
I consiglieri municipali, eletti a suffragio universale, erano responsabili e revocabili in qualsiasi momento. Inutile dire che erano in maggioranza operai. Essi non avevano una funzione parlamentare, ma dovevano rappresentare un organismo di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Questo non significava distruggere le organizzazioni rappresentative, ma sostituire ad un organismo parlamentare borghese, in cui la libertà di lavoro e discussione finisce per tramutarsi in inganno, un organo di lavoro: cioè i parlamentari dovevano essere essi stessi a lavorare, applicare le loro disposizioni, verificarle e, quindi, essi in prima persona risponderne ai loro elettori, i quali potevano, in ogni momento destituirli. E per evitare il carrierismo e l'arrivismo, i Comunardi, oltre alla revoca; applicarono un metodo infallibile: per tutti i servizi e pei ogni professione si pagava soltanto lo stipendio che ricevevano gli altri operai. I benefici, le prerogative caratteristiche degli alti funzionari dello stato scomparirono insieme ad essi.
Anche la polizia, finì di essere un corpo separato dalla società, strumento del governo centrale e docilmente manovrabile dalle classi dominanti; venne spogliata da ogni attribuzione politica e trasformata in un organo responsabile e sempre revocabile dalla Comune.
La Comune voleva abolire la proprietà; voleva abolire ciò che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva espropriare i padroni; voleva trasformare i mezzi di produzione, che sono (ancora oggi) essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato.
La Comune aveva dichiarato che avrebbe trasformato le (ancora odierne) sanguisughe: notai, avvocati, uscieri e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati eletti dal popolo e davanti al popolo responsabili
La Comunesi preoccupò, anche, di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei preti, togliendo ogni investitura ed espropriando tutte le chiese in quanto corpi possidenti (Karl Marx - La Guerra Civile in Francia)” I preti, così spogliati dalle loro proprietà; perdevano ogni forma di mantenimento a spese dello stato; la loro retribuzione, invece di essere estorta dagli agenti delle imposte, doveva dipendere solo dall’azione spontanea ispirata dai sentimenti religiosi dei parrocchiani, dovevano vivere, quindi, delle elemosine dei propri fedeli, come il loro Dio aveva predicato.
Tutti gli istituti di istruzione furono aperti al popolo gratuitamente e non più formalmente. L'ingerenza della Chiesa e dello Stato fu eliminata. I magistrati e i giudici furono elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri funzionari.
La Comune di Parigi doveva essere il modello sulla base del quale si dovevano organizzare tutti i grandi (industriali) e piccoli centri (rurali) della Francia, passando dal vecchio governo centralizzato all'autogoverno.
Il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto, anche nelle province, all'autogoverno del popolo. In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale, che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è detto chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo. Le Comuni rurali di ogni distretto avrebbero dovuto amministrare i loro affari comuni mediante un'assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali avrebbero dovuto loro volta mandare dei rappresentanti alla delegazione nazionale a Parigi, ogni delegato essendo revocabile in qualsiasi momento e legato al mandat impératif (istruzioni formali) dei suoi elettori.
La Comune portava con se, come conseguenza naturale, la libertà municipale locale, ma non più come contrappeso al potere dello Stato. Quindi per il solo fatto che esisteva la Comune, il potere dello Stato diventava superfluo.
L'esercito permanente avrebbe lasciato posto alla milizia popolare con un periodo di servizio estremamente breve, in maniera da evitare il formarsi di una nuova casta di militari e di un potere contrario agli interessi del popolo.


Gli ideali

Vediamo intanto a quali teorie, a quali ideali s’ispirano gli uomini del Comitato Centrale e dei tanti gruppi che balzarono alla ribalta della Comune. Benché Marx abbia già teorizzato la lotta di classe, la sua influenza diretta sul proletariato era molto scarsa e si manifestava soprattutto nei circoli dell'Internazionale operaia, la cui sezione parigina era però dominata dai seguaci del pensiero di Auguste Blanqui e di Joseph Proudhon. I blanquisti[2] costituivano la fazione più compatta e risoluta. Esigevano l'abolizione della proprietà privata, avevano spiccatissimo il gusto della cospirazione e dell'avventura, e già nell'agosto 1870, poco dopo l'inizio della guerra franco-prussiana, tentarono senza successo di occupare alcune piazzeforti di Parigi. Non ritenevano necessario indottrinare le masse e pensavano che bastava una minoranza decisa, spavalda, per fare piazza pulita dell'ordinamento borghese.
I proudhoniani[1], durante l'Impero, avevano badato soprattutto ad organizzare casse di mutuo soccorso e a migliorare le condizioni dei lavoratori, uno dei cardini del loro programma era il decentramento amministrativo, il federalismo. A differenza dei blanquisti[2], che erano in fondo una società segreta di carbonari rossi, i proudhoniani[1] agivano allo scoperto e reclutavano moltissimi seguaci fra gli artigiani e la piccola borghesia.
Bakunin sottolineò l'unità d'intenti socialisti mostrata dai delegati del Consiglio e il loro progetto di riorganizzare l'assetto istituzionale in senso federalista, che l'altro anarchico James Guillaume considerava la principale caratteristica della rivoluzione parigina: “Non c'è più uno Stato, non c'è più un potere centrale superiore ai gruppi che impongano la loro autorità; c'è solo la forza collettiva risultante dalla federazione” e poiché non esiste più lo Stato centralizzato e “i comuni godono della pienezza della loro indipendenza, c'è la vera anarchia”.
La Comune riservò sin dal suo principio grande importanza all'individualità: libertà d'espressione, di coscienza, di lavoro e d'intervento nelle decisioni comunali.
L'aspetto caratterizzante di quest'esperienza fu il localismo, la rivolta contro il potere centralizzato e la distruzione dello Stato politico quale centro di controllo autoritario. La Comune non fu uno Stato quindi, bensì la sua negazione, e perciò essa doveva anche, dinanzi alle esigenze militari, conservare il suo carattere democratico e seguitare a basarsi sulle piccole comunità locali di cui Parigi era composta.
Gli anarchici essendo essenzialmente federalisti volevano un sistema in cui il potere, per quanto ne sarebbe rimasto, fosse attribuito a gruppi locali, mentre ogni organismo operante su un campo più vasto non doveva avere che funzioni delegate.
Concludendo si può certamente dire che la Comune di Parigi non fu un'esperienza prettamente anarchica (per l'improvvisazione con cui si costituì, per le diverse anime che furono presenti ecc.) ma, indubbiamente, ne assunse alcune caratteristiche che le diedero, con tutte le critiche possibili, un carattere libertario.


Gli errori

Si era sviluppata una situazione ideale che nessun governo rivoluzionario si era mai sognato di immaginare prima: un esercito a disposizione il cui numero varia, secondo diverse fonti, dai 60.000 ai 200.000 uomini, senza contare l’apporto dato da tutti i cittadini compresi i giovani e, soprattutto, le donne; un apparato di difesa eccezionale costituito da ben sei forti che gli stessi prussiani non avevano potuto espugnare. Se a questo si aggiunge l’esistenza di una zona neutra (quella occupata dai prussiani) attraverso la quale i rifornimenti potevano entrare regolarmente a Parigi senza essere molestati, il possesso dell’immenso tesoro della Banca di Francia valutato a circa tre miliardi di franchi, il generale entusiasmo di tutti, in quanto tutti si rendevano conto dell'eccezionalità dell'esperimento e del fatto che per la prima volta non si lavorava e non si moriva per un re o per un Bonaparte ma per se stessi, per una comunità, si potrà avere un quadro esatto della situazione rivoluzionaria della Comune.
Eppure con tutte queste condizioni favorevoli il risultato non fu positivo, e questo perché la Comune commise degli errori che favorirono la reazione governativa, come la mancata opposizione alle truppe in ritirata, una responsabilità che grava su Charles Lullier, il nuovo comandante della Guardia nominato dal Comitato Centrale.
L'errore più grave fu probabilmente quello di non attaccare immediatamente Versailles, come affermó lo stesso generale Vinoy, scrivendo di “errore gravissimo e irreparabile”, perché il Comitato Centrale non utilizzò “tutti i vantaggi inaspettatamente conseguiti. In quel momento tutte le probabilità erano dalla sua parte. Esso avrebbe dovuto tentare l'attacco il giorno seguente”.
In effetti, gli uomini del Comitato Centrale non avevano nessun piano militare perché essi stessi erano rimasti sorpresi dall'insurrezione spontanea della popolazione: “essi non l'avevano prevista e non avevano fatto nulla per organizzarla. Solo la disgregazione dell'esercito eccitò la loro audacia (sempre parole di Vinoy)”. Anche per Marx, un errore fondamentale fu quello di perdere tempo nell'eleggere legalmente la Comune, invece di marciare subito su Versailles. Ciò avrebbe permesso di far retrocedere almeno il fronte della battaglia in modo da creare uno spazio vitale intorno a Parigi, necessario non solo per il vettovagliamento, ma indispensabile perché così sarebbero state possibili le comunicazioni con il resto della Francia. I tentativi rivoluzionari che vi furono in altre città (Marsiglia, St. Etienne, Narbonne, Bordeaux, Montepellier, Tolosa, Grenoble ecc.) avrebbero potuto essere meglio organizzati e coordinati tra loro, oltre al fatto che avrebbero potuto trarre beneficio dalla conoscenza della verità su ciò che accadeva a Parigi. Invece intorno ad essa fu fatto un cordone sanitario e le fu impedita ogni comunicazione, mentre i veri rivoluzionari non sapevano niente di ciò che effettivamente accadeva, se non le calunnie dei giornali borghesi.
Un altro errore fu quello di non aver voluto impadronirsi delle riserve auree e monetarie della banca di Francia. “Il governo, fuggendo a Versailles, aveva lasciato le casse vuote, narra Louise Michel, gli ammalati negli ospedali, il servizio di ambulanza e funerario erano senza risorse; gli uffici in disordine. Varlin e Jourde ottennero 4 milioni dalla Banca, ma le chiavi erano a Versailles, e non vollero forzare le casseforti; chiesero allora a Rothschild un credito di un milione che fu versato alla Banca”. Cosa spinse il finanziere francese Rothschild a concedere tale finanziamento? Probabilmente questa decisione fu influenzata in maniera determinante dalla pressione esercitata dalla borghesia francese cui premeva innanzi tutto che le riserve della Banca non fossero lese. La semplice concessione del prestito da parte del Rothschild avrebbe consentito ai Comunardi di continuare la resistenza senza ricorrere alle riserve della Banca, sino a quando non fossero state a disposizione le forze militari sufficienti a batterli definitivamente. Non è da escludere che lo stesso Bismarck, così come aveva aiutato Thiers restituendo i prigionieri di Metz e Sedan allo scopo di ricostituire l’esercito per combattere contro Parigi, facesse pressione su Rothschild perché concedesse il prestito in nome della solidarietà borghese.
Eppure l'impadronirsi delle riserve della Banca avrebbe potuto aiutare molto nella lotta contro la borghesia: solo in questo caso essa avrebbe premuto su Versailles perché si concludesse la pace. In definitiva, il controllo della Banca di Francia avrebbe dato loro una forza di contrattazione ben più grande di quella che poteva dare la sola forza militare. Avrebbe anche significato avere i mezzi finanziari per alimentare la rivoluzione non solo a Parigi, ma anche nel resto della Francia.
Siffatto errore si può spiegare solo per il perdurare di certi pregiudizi borghesi in alcuni settori dello schieramento rivoluzionario, come i giacobini e i blanquisti[2] che da poco tempo avevano radicalizzato le proprie posizioni, e anche per il fatto che i Comunardi peccarono di ingenuità politica, data la loro inesperienza, essendo i protagonisti del primo tentativo rivoluzionario del proletario.
I Comunardi non hanno saputo espropriare i ladri. Essi che hanno abolito polizia ed esercito; essi che hanno abbattuto la colonna di place Vendôme, simbolo di oppressione, perché fusa col bronzo di 1200 cannoni conquistati dal primo Napoleone; essi che hanno sanzionato che soli sacrifici leciti sono quelli che le masse sanno imporre ai signori; essi, ancora incrostati d'ideologia, si sono fermati sulla soglia del Tempio Bancario. Fosse dipeso dalle donne (che dovevano, oltre tutto, far da mangiare per i rispettivi figli e mariti), è probabile che un così tragico errore non sarebbe stato commesso.
Ma anche se non hanno saputo espropriare il nemico, travolgerlo col terrore prima di cader vittime del suo terrore, i Comunardi hanno dato veramente l'assalto al cielo; e non per un ideale, ma per estirpare il vecchio (il capitalismo) perché finalmente sorgesse il nuovo (il libertarismo); per porre fine, in altri termini, allo sfruttamento (e conseguentemente alla repressione, alla guerra, alla devastazione dell'uomo e della natura), e dare inizio alla storia umana, una storia di liberi e di uguali, per i quali le risorse sono di tutti (non solo uomini, ma anche piante e animali, tutti indispensabili alla continuazione della vita sulla Terra).
Solo chi mira alla perpetuazione del dominio dell'uomo sull’uomo, imbalsama il passato, per farne il proprio feticcio di legittimazione.
Altra incertezza che ebbero i Comunardi fu di non sequestrare le industrie capitalistiche, sebbene alla fine gli operai finirono per impadronirsi di quelle aziende che erano state abbandonate dai proprietari fuggiaschi.


Gli uomini e i gruppi politici

Parigi si proclamò Commune, Comune, rivendicando quelle libertà municipali di cui aveva goduto intorno al XII secolo. I Comuni medievali, in Francia, non erano stati fiorenti come nella penisola italiana giacché la monarchia francese aveva subito imposto il suo centralismo burocratico, ma questo richiamo al lontano passato fu un modo di affermare il diritto dei parigini all'autogoverno. La Commune (arbitrariamente tradotta in italiano «La Comune» al femminile anziché al maschile, come vorrebbe la nostra lingua) fu un'entità storica piuttosto effimera, ma il suo nome è chiamato adesso ad interpretare la volontà di emancipazione di un proletariato che, a Parigi, si addensò più numeroso che in qualsiasi altra città di Francia e d'Europa. A Parigi arrivarono proletari da tutta Europa: ci furono polacchi, italiani, tedeschi, ungheresi pronti a incrociare il ferro in difesa della Comune, e ciò era dovuto alla credenza, ancora abbastanza diffusa nel 1871, secondo cui era sufficiente l'unione fraterna dei popoli per migliorare le sorti del proletariato che lavorava sedici ore al giorno nelle fabbriche malsane e viveva in condizioni penosissime.
A questa fiducia di molti «internazionalisti», Marx già contrapponeva la dura dialettica che andava svolgendo in seno all'Associazione Internazionale dei Lavoratori, ma era un sentimento romantico avvolto da un’ideologia libertaria a prevalere nell'animo dei volontari accorsi a Parigi da ogni parte d'Europa. Marx, comunque, si era illuso su un punto, aveva creduto che la solidarietà universale del proletariato avrebbe impedito a Bismarck di trasformare in guerra offensiva quella che, agli inizi, si presentava come una legittima difesa della Prussia dalle mire di Napoleone III. I soldati prussiani non si erano limitati a difendere il suolo patrio, ma avevano allegramente invaso il territorio francese per una guerra di. conquista: il virus nazionalista aveva avuto il sopravvento sui proclami dell'Internazionale.
Chi erano i gruppi politici e gli uomini che si preparavano all’insurrezione?
Innanzi tutto bisogna citare una delle più belle figure di operaio internazionalista, fucilato dai versagliesi dopo averlo orrendamente torturato: Eugène Varlin, anarchico d’ispirazione bakuniana che si dedicò completamente alla causa della classe operaia. Aveva amicizie anche tra gl'intellettuali giacobini, era, quindi, l'uomo adatto a stabilire il contatto politico tra questi e gli anarchici.
Appena seppe della proclamazione della repubblica, Varlin, che era a Bruxelles, si recò subito a Parigi e riprese la parte preponderante in seno al Consiglio Federale dell'Internazionale. Le sezioni parigine dell'Internazionale erano molto disorganizzate ed ancora deboli. Varlin capì, però, che non era il momento per cercare di riorganizzarle e rafforzarle, perché urgeva mirare dritto allo scopo: rovesciare il governo e preparare la rivoluzione. Un accordo con i giacobini era certo più importante. Non si è a conoscenza dei termini di questo accordo comunque da allora in poi anarchici e giacobini mantennero la loro alleanza sino alla fine della Comune.
Chi erano questi giacobini? “Ci sono giacobini avvocati e dottrinari come il signor Gambetta... vi sono poi giacobini sicuramente rivoluzionari: gli eroi e gli ultimi rappresentanti onesti della fede democratica del 1793, capaci di sacrificare la loro unità e la loro autorità tanto amate, alla necessità della rivoluzione... Questi giacobini magnanimi vogliono il trionfo della rivoluzione innanzi tutto. Ma siccome non c’é rivoluzione senza masse popolari, e siccome in queste è oggi sicuramente sviluppato l'istinto socialista, i giacobini non possono più fare altra rivoluzione che non sia economica e sociale; e così giacobini di buonafede, lasciandosi vieppiù trascinare dalla logica del movimento rivoluzionario, finirono per diventare socialisti loro malgrado (Bakunin)”.
Repubblicani radicali, malgrado la loro buona volontà e la loro fede, non ebbero il tempo, nell’incalzare degli avvenimenti, di sopprimere e superare una serie di pregiudizi borghesi contro il socialismo, cosicché la loro azione ne risultò come frenata, inibita, anche se poi vennero trascinati dagli avvenimenti e finirono per avvallare ciò che il popolo credeva opportuno fare. I loro obbiettivi politici erano le libertà democratiche, come la laicità della scuola e la libertà di stampa. La loro base sociale risiedeva nell'intellettualità della piccola borghesia e il loro modello di riferimento era la Repubblica giacobina espressa dalla Grande Rivoluzione, che del resto esercitava ancora un certo fascino anche negli altri gruppi rivoluzionari. Non a caso i blanquisti[2] Humbert, Vermersch e Vuillaume fondarono il quotidiano Le Père Duchêne, richiamandosi all'omonimo giornale di Hébert e il proudhoniano[1] Vermorel pubblicò i discorsi di Danton, di Marat, di Robespierre e di Vergniaud. Figure rilevanti di neo-giacobini furono Louis Charles Delescluze, Charles Ferdinand Gambon, Jules Miot e Félix Pyat.
Un altro gruppo numeroso era rappresentato dai blanquisti[2] i quali possedevano un'efficienza non facilmente riscontrabili in altri gruppi. Erano nella maggioranza socialisti per istinto rivoluzionario: così si comprende come nel campo economico furono da loro trascurate parecchie cose. Non si concepisce, ad esempio il sacro rispetto che li caratterizzò davanti alle porte della Banca di Francia. Essi comunque si preoccuparono esclusivamente dall'azione insurrezionale e dei metodi di lotta rivoluzionari; ponevano in primo piano la necessità della conquista del potere politico. Educati alla scuola della cospirazione, ritenevano che un numero relativamente piccolo di uomini decisi ed organizzati ferreamente potesse impadronirsi del potere e mantenerlo fino a quando non fosse riuscito a lanciare la massa del popolo nella rivoluzione, e una volta impadronitisi del potere, avrebbero instaurato un governo dittatoriale, necessario per stroncare ogni opposizione e, insieme, per attirare a sé le masse popolari. Erano, quindi, i fautori dell'accentramento più energico e dittatoriale. “Il comunismo non si realizza con i decreti (aveva scritto Blanqui) ma sulla base di decisioni prese volontariamente dalla nazione stessa, e queste decisioni possono avvenire solo sulla base di una larga diffusione dell'istruzione”. Tra i blanquisti[2] parteciparono attivamente alla Comune: Casimir Bouis, Frédéric Cournet, Gaston Da Costa, Émile Eudes, Théophile Ferré, Gustave Flourens, Ernest Granger, Alphonse Humbert, Victor Jaclard, Eugène Protot, Raoul Rigault, Gustave Tridon, Édouard Vaillant. Per fortuna, malgrado fossero la maggioranza, non ebbero influenza nella Comune. Essi furono responsabili degli atti e delle azioni politiche, mentre dei decreti economici furono responsabili in prima linea gli anarchici, comprendendo sotto questo nome i bakuniani e i proudhoniani[1].
In Francia erano molto diffuse le teorie proudhoniane[1], secondo le quali occorreva conciliare lavoro e capitale. Ogni cittadino doveva essere un produttore di beni, “un uomo libero, un vero signore che agisce per propria iniziativa e sotto la sua personale responsabilità, sicuro di ricevere per il proprio prodotto e per i suoi servizi la giusta remunerazione”.
Una banca popolare avrebbe elargito credito a basso interesse ai produttori di merci il cui valore sarebbe stato determinato dal tempo di lavoro necessario a produrle. I prodotti sarebbero andati al mercato e i produttori avrebbero ricevuto un numero di buoni equivalenti alle ore lavorate, con i quali avrebbero potuto comperare merci e servizi a loro necessari. In questo modo ciascuno avrebbe ricevuto il giusto compenso per il proprio lavoro e avrebbe acquistato al giusto prezzo i prodotti altrui. Questo, chiamato da Proudhon mutualismo, è “un sistema d'equilibrio tra le forze libere, in cui a ogni forza sono assicurati eguali diritti, a condizione che adempia eguali doveri; e a ogni forza è data la possibilità di scambiare servizi con servizi corrispondenti”.
I proudhoniani[1] erano nemici dello Stato e immaginavano la nazione organizzata in una federazione di città: “ogni gruppo etnico, ogni razza, ogni nazionalità ha il pieno dominio del proprio territorio; ogni città, fidandosi della garanzie dei vicini, ha il pieno dominio della zona che entra nel suo raggio d'azione. L'unità non è assicurata da leggi, ma soltanto dagli impegni che i diversi gruppi autonomi assumono reciprocamente». Ogni comune doveva essere sovrano: “il comune ha diritto all'autogoverno, all'amministrazione, alla riscossione dei tributi, alla disponibilità della sua proprietà e delle sue imposte. Ha il diritto di costruire scuole per la sua gioventù, di nominare gli insegnanti, di avere la sua polizia, i suoi gendarmi e la sua Guardia Nazionale; di designare i giudici, di avere giornali, di tenere assemblee, di possedere società private, imprese, banche”.
Tuttavia i seguaci di Proudhon non costituivano un folto gruppo, ma tra di essi ricordiamo: Augustin Avrial, Charles Beslay, François Jourde, Charles Longuet, Benoît Malon, Albert Theisz, Eugène Varlin, Auguste Vermorel.
Altri elementi di spicco della rivoluzione parigina furono l'ex garibaldino e anarchico Amilcare Cipriani, il pittore Gustave Courbet, gli anarchici André Léo, Gustave Lefrançais, Louise Michel ed Élisée Reclus.
Non bisogna dimenticare che la Comune coincide con la fase più acuta del conflitto Marx-Bakunin in seno alla 1ª Internazionale e che le sezioni francesi di quest’ultima erano nettamente orientate a favore del secondo il quale, sebbene non fosse presente, aveva a Parigi, tramite Varlin e i suoi amici, molta influenza, non nel senso che a Parigi si aspettavano sue direttive, ma che ci si ispirava a lui e al suo collettivismo nel prendere le più importanti iniziative economiche,
Certo è, comunque, il fatto che né Marx né Engels ebbero alcuna influenza sulla Comune. Engels scrisse in seguito a Sorge: “l’Internazionale non ha mosso un dito per favorire la Comune”. Varlin, è vero, era uno dei due segretari del comitato federale parigino dell’Internazionale, ma non fu in tale qualità che lavorò per la Comune. I verbali delle sedute del Consiglio Federale non contengono quasi accenno del movimento che poi sfociò nella Comune. Qualcuno dei membri influenti dell'Internazionale prese certo parte attiva all’instaurazione di essa, ma il Consiglio Generale di Londra, di cui faceva parte Marx, non mosse davvero un dito.
Bakunin non prese parte alla preparazione: dopo il fallimento dell’insurrezione a Lione. tutte le speranze da lui riposte nella Francia si erano affievolite. per non dire annullate: “non ho più alcuna fiducia nella rivoluzione in Francia, questo paese non è più per nulla rivoluzionario” disse. Ciò nonostante egli era ancora dell`avviso che solo “la rivoluzione sociale avrebbe potuto salvare il popolo francese”. Ma i suoi amici e seguaci questa volta non lo ascoltarono: se a Lione si era fallito. ciò era dovuto al fatto che non ci si era preparati a sufficienza: per questo i parigini non erano ancora insorti e stavano preparando la loro rivoluzione. La battaglia era imminente: essi mettevano ordine alle loro fila.
Il 18 Marzo il momento nazionalista era ormai completamente superato, il popolo parigino ormai aveva fatto una netta distinzione tra borghesia e classi sfruttate ed era giunto alla consapevolezza, non più istintiva, ma ideologica, della contrapposizione fra i propri interessi e quelli della classe dominante: lo dimostra il fatto che la Comune, in uno dei suoi primi proclami, dichiarò che le spese di guerra dovevano essere pagate da coloro che erano stati i veri autori di essa. Si era compreso come dietro lo «Stato» francese che combatteva contro lo Stato prussiano, non stessero tutti i francesi, ma solo la borghesia.
Ma come era avvenuta questa crescita di coscienza nelle masse? Era forse calata dall'alto? No: “I nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato ch'essa (una rivoluzione sociale) non poteva essere fatta e condotta al suo completo sviluppo che mediante l'azione spontanea e continuata delle masse, dei gruppi e delle associazioni popolari” disse Bakunin. Erano convinti che l'azione delle masse doveva esser tutto: “tutto ciò che gli individui possono fare è di elaborare, di chiarire, e di propagare le idee corrispondenti all'istinto popolare e, di più, di contribuire coi loro sforzi incessanti all'organizzazione rivoluzionaria della potenza naturale delle masse. Ma nulla oltre a ciò; tutto il resto non può e non deve essere fatto che dal popolo stesso; altrimenti si arriverebbe alla dittatura politica, cioè alla ricostituzione dello stato, dei privilegi, delle ineguaglianze, di tutte le oppressioni dello stato, e per una via indiretta, ma logica, si arriverebbe alla restaurazione della schiavitù politica, sociale ed economica delle masse popolari (Bakunin)”.
Il tipo di maturazione che ebbe allora la classe operaia, la progressiva radicalizzazione della lotta e il coinvolgimento in essa di ceti piccolo borghesi, dimostra un altro aspetto estremamente interessante: soltanto nella lotta pratica e nello scoprire non più a livello ideologico, ma nella prassi, le contraddizioni del sistema borghese, che a una formale libertà associa sempre una reale repressione e sfruttamento della classe operaia, i proletari prendono coscienza totalmente della propria collocazione di classe. Solo dopo che la contraddizione esplode nella realtà, essa può sboccare completamente nella coscienza degli individui e si trasforma da ideologia e teoria rivoluzionaria in prassi sovvertitrice della società costituita.


La violenza

Bertolt Brecht, nel dramma I giorni della Comune, fa chiaramente intendere che una delle principali cause della sconfitta è stata l'incapacità (prevalentemente ideologica). dei Comunardi di contrapporre al terrore della borghesia il terrore del proletariato. Egli mette in bocca a Varlin queste parole pronunciate al Consiglio della Comune: “Cittadini delegati, si dice che le donne dei soldati di Versailles piangano, ma le nostre non piangono. Volete abbandonarle impotenti nelle mani di un nemico che non ha mai indietreggiato davanti alla violenza? Qualche settimana fa si è detto: le operazioni militari non sono necessarie, Thiers non ha truppe, sarebbe la guerra civile sotto gli occhi del nemico. Ma la nostra borghesia non ha esitato a legarsi col nemico della nazione, per condurre contro di noi la guerra civile. Da questo nemico la borghesia ha ricevuto delle truppe: contadini della Vandea che erano caduti in prigionia, forze fresche, cui non è potuta arrivare la nostra parola. Nessun conflitto fra due borghesie potrà mai impedir loro di unirsi immediatamente contro il proletariato dell'una o dell'altra: Si è anche detto: niente terrore! Che diventerebbe altrimenti l'epoca nuova? Ma Versailles esercita il terrore e ordinerà un massacro generale, così che nessuna epoca nuova possa avere inizio. Se saremo sconfitti, sarà per la nostra indulgenza, che è sinonimo di ignoranza. Cittadini, vi scongiuro, impariamo finalmente dal nemico!
Si direbbe che mentre tanti Comunardi, che pur hanno dimostrato di sapersi battere eroicamente, sono rimasti vittime delle proprie ideologie utopistiche, cosicché, ancora sulla soglia del tragico finale, discutono sulla violenza, e c'è chi gridava: “è una bestemmia” al blanquista[2] Raoul Rigault che dichiarava: “esigo solo terrore contro terrore”, le donne della Comune, che da sempre conoscevano l'incommensurabile violenza del potere, ritenevano del tutto normale che solo col fucile si possa vivere liberi. Quanto avessero ragione, lo si è visto alla conclusione della tragedia, quando le truppe di Versailles son potute penetrare a Parigi, ed è incominciata la così detta Settimana sanguinante (cui Brecht fa assistere, da Versailles con i binocoli, la classe al potere, che esclama estatica: “quale sublime spettacolo!”).


Insegnamenti

La Comune, fu una «leva» per distruggere le basi economiche su cui si appoggia l'esistenza delle classi, e quindi il dominio di classe; fu anche una «leva» per distruggere lo Stato che si regge su quelle basi. E, d'altra parte, che Stato sarebbe quello in cui l'esercito permanente scompare, la polizia finisce di avere il compito repressivo, la Chiesa viene resa autonoma e non parassita, i funzionari revocabili in ogni momento, i salari uguali a quelli operai, l'istruzione gratuita ecc.? Che Stato sarebbe uno stato che ormai ha perso ogni attributo tipico di esso? Ecco il significato della parola estinzione: con la Comune lo Stato si sarebbe estinto, ma non per fare posto ad un altro organismo repressivo, che poi altro non sarebbe che un'altro Stato, la macchina statale sarebbe stata spezzata in maniera definitiva solo per lasciare che la società civile, che gli operai, i contadini e il popolo in genere si governassero da se, senza nessuna delega (come è intesa oggi) né sottomissione.
Ecco il perché del significato profondo dell’esperienza della Comune, il perché una sconfitta della classe operaia viene ancora oggi celebrata.
ll nazionalismo che caratterizzava gli operai francesi prima della rivoluzione del 18 marzo non era certo un elemento rivoluzionario in se, anzi poteva essere considerato un puntello, un fattore per stringere attorno alla borghesia guerrafondaia tutta la nazione francese e fare così passare in secondo piano le contraddizioni interne che opponevano gli operai ad essa. Si poteva rivelare un supporto per la politica espansionistica di Luigi Bonaparte il quale tentava, con un vecchio stratagemma caro alle classi dominanti, di unificare il paese contro il nemico esterno e così superare le difficoltà interne con un bagno di sangue, naturalmente, di proletari e operai.
Non fu così: borghesia e burocrazia si rivelarono incapaci non solo di risolvere le contraddizioni sociali, ma anche di condurre una guerra, tale era il disfacimento e la decadenza in cui ormai versavano. La guerra, che doveva salvarle dalla rivoluzione sociale, si stava per rivelare la loro tomba, ed il nazionalismo, di cui prima avevano gioito, in una trappola mortale. Tanto più pericolosa quanto più essi cercavano di soffocarlo, fino a quando non furono costretti. a gettare la maschera e a concludere un armistizio. Il loro nemico ormai non era più il prussiano, ma il parigino armato non solo del fucile ma di una coscienza rivoluzionaria che solo nella lotta si era potuta sviluppare.
La Comune ci ha fatto capire che da una parte bisogna abolire la vecchia macchina repressiva dello Stato, e dall'altra che bisogna assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili. Non si tratta, quindi, di trasferire da una mano all'altra il potere dello Stato, di mettere al posto dei vecchi burocrati altri burocrati che dovrebbero fare gli interessi del popolo, ma che poi finiranno per fare solo i propri. Il popolo deve spezzare, demolire la macchina statale e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene. Ma spezzare e demolire lo stato non significa costruirne uno nuovo, o uno proletario (come intendevano Marx o Lenin con la loro «dittatura del proletariato»), in sostituzione di quello vecchio. Per Stato non si intende solo lo stato borghese, ma ogni tipo di Stato, anche quello «popolare». Non fu dunque una rivoluzione contro la forma di potere statale legittimista, costituzionale, repubblicano, imperiale, la Comune fu una rivoluzione contro ogni tipo di Stato.
Questo é l'insegnamento principale della Comune e questa era la strada verso la quale essa si stava avviando se la borghesia non avesse prematuramente soffocato il suo tentativo.
Il diritto uguale di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la negazione di ogni freno morale, ecco, se si scende alla radice delle cose, la ragion d’essere dell’insurrezione del 18 marzo. Là “il socialismo rivoluzionario ha tentato una prima manifestazione magnifica e pratica (Bakunin)”.
Coloro che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che vi è di sovversivo nell’amore, nella fratellanza, nella cooperazione, nella divisione dei beni e di positivo nel rifiuto radicale di tutte le costrizioni, si riempiono la bocca di escrementi.
La Comune è stata la più grande festa del 19° secolo. Alla base di essa si trova la convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia.
La Comune non ha avuto capi. E questo in un periodo storico nel quale l’idea che fosse necessario averne dominava completamente il movimento operaio.
L'esperimento della Comune di Parigi rimane, nonostante la sconfitta, un'esperienza assolutamente valida per gli insegnamenti che da essa possono trarre anche le attuali forze rivoluzionarie. Un filo ideologico parte infatti dalla Comune e la lega all'occupazione armata delle fabbriche in Italia agli inizi del ‘900, alla lotta dei Machnovisti in Ucraina, alla ribellione di Kronstadt, all'autogestione e alle Comuni agricole organizzate dalla CNT-FAI in Spagna durante la guerra civile, alla comunità La Cecilia nello stato brasiliano del Paranà fino ad arrivare a Cristiania in Danimarca.
Tale filo conduttore si determina in una parola, in una esperienza storica in cui si configura l'essenza stessa del socialismo: autogestione. Autogestione a tutti i livelli da parte del popolo in lotta, di ogni strumento rivoluzionario e di organizzazione sociale.
Marx nel 1871 fu costretto dalla forza degli eventi a sottoscrivere in termini entusiastici il federalismo anarchico dei Comunardi proprio mentre, in seno all'Internazionale, tendeva invece a centralizzare, all'interno del Consiglio Generale di Londra, la struttura del movimento operaio contrapponendosi ai bakuninisti. Così il Lenin pseudo-libertario di «Stato e Rivoluzione» fortemente influenzato dal movimento libertario che si sviluppava sul territorio sovietico, assume un'ambiguità sconcertante circa la concezione della società rivoluzionaria, salvo poi a rimangiarsi tutto, riproponendo i termini del «centralismo democratico», ponendo così le basi della involuzione politica del movimento proletario russo, dello sterminio di tanti compagni sinceramente rivoluzionari, dello stalinismo e del revisionismo contemporaneo, come logica conseguenza di ogni struttura burocratica e gerarchica.
Così fallisce l'esperienza centralizzatrice del Partito rivoluzionario come astrazione dalla classe operaia allo stesso modo che lo Stato lo è nei confronti della società.
È questa l'indicazione che nasce dall'esperienza comunarda.
È questa la concreta proposta di «azione diretta» che gli anarchici, i sinceri rivoluzionari con le loro lotte autonome, autogestite, continuamente slegate dai vertici sindacali e dai partiti riformisti traditori della classe operaia, fanno oggi a tutto il movimento popolare anticapitalista, antimperialista e antirevisionista contemporaneo, sulla traccia libertaria iniziata nel 1871 con la Comune di Parigi.
Se si pensa che tutto questo ed altro, specie nel campo dell’istruzione, delle biblioteche, della lotta contro la chiesa, della propaganda a mezzo dei giornali, fu compiuto in appena 72 giorni, ci si rende conto che la produttività fu massima e che ognuno fece quando ha potuto ed anche di più. Ci furono, naturalmente, delle eccezioni che vennero comunque circoscritte ed eliminate dall’incarico.
È proprio questo il principio che ha retto la Comune e che deve reggere il fondamento di qualsiasi rivoluzione proletaria e della successiva organizzazione: la delega in base alla funzione, non più in base al titolo, al casato o all’acquisto di consensi, di voti, ma soltanto in base alla funzione; naturalmente con la premessa indispensabile della removibilità.
In questo si vede il più alto insegnamento della Comune, in quanto si vede l’indirizzo anarchico e l’organizzazione libertaria della Comune parigina che fu spontanea, senza organizzazione partitica o di gruppi organizzati, senza capi; socialista, anarchica, fatta di uguali, dove ci furono si delle deleghe, ma fatte con consenso popolare ed in qualsiasi istante revocabili sempre col volere del popolo.
Questo fenomeno, in quella sede, non fu che un lampo appena (in altre sedi successive, come in Ucraina dal 1917 al 1921 e in Spagna nel 1936, l’esperimento poté durare più a lungo), ma ci da la speranza e soprattutto la convinzione che un giorno non lontano l’esperimento possa passare a fatto definitivo.
Tutti noi dobbiamo raccogliere e riplasmare l’eredità spirituale e materiale della Comune di Parigi, non dimenticando la sua gente: donne, uomini e anche giovani morti con la speranza di averci dato un insegnamento: si può, si deve creare un mondo nuovo. Anche se ultimamente diminuita, la volontà della massa operaia non manca, la sua capacità produttiva è sempre più ampia, la sua rottura con le ristrette cerchie degli sfruttatori capitalisti continua ad essere decisa; resta solo di evitare che una nuova marea di oratori, di letterati, di sognatori in buona e in mala fede, riesca a montare all’assalto della realtà rivoluzionaria, … il resto non tarderà a venire.

La conquista del cielo è possibile!





[1] Per proudhoniani s’intendono definire i seguaci del filosofo francese Pierre-Joseph Proudhon, fondato essenzialmente sul mutualismo e sul federalismo, da molti studiosi inserito impropriamente nell’ambito di quello che Marx definì socialismo utopistico. L’anarchismo proudhoniano educa i seguaci ad una società libera e federata, di artigiani e piccoli contadini, che pone al centro i problemi del credito e del prestito ad interessi limitati. Gli elementi basilari dell’anarchismo proudhoniano sono il federalismo, il decentramento, il controllo diretto da parte dei lavoratori, abolizione della proprietà (ma non del possesso poiché reputato naturale), l'istruzione sotto il controllo degli insegnanti e dei genitori, l'istruzione legata all’apprendistato ecc.
[2] Il blanquismo fu un movimento dottrinale e attivista a favore, in primo luogo, della Repubblica e, una volta raggiunta, del comunismo in Francia, che era in vigore durante il diciannovesimo secolo, penetrò fino in fondo in modo dominante ed eccitante tra intellettuali e studenti, e fu anche caratterizzato da una forte disciplina rivoluzionaria combattiva. Deve il suo nome allo scrittore, politico e leader di questa fazione, il francese Louis Auguste Blanqui.