RIFLESSIONI
I parigini avevano preso sul serio la montatura
patriottica sciorinata da Naopeone
III;
l'idea della patria era divenuta per il popolo come una seconda religione,
mentre per la borghesia rappresentava un affare. Il popolo era pronto a dare
per la patria l'unico suo avere, la vita! Ma i borghesi non vollero dare per la patria né la vita, né la
loro ricchezza! Parole come armistizio, capitolazione, pace … il popolo, che
voleva vincere o morire, non poteva comprenderle! La borghesia invece volle
salvarsi e si salvò, passando sulla mutilazione della Francia e sul cadavere
del popolo massacrato dalle stesse sue armi fratricide a Parigi!
Il popolo di Parigi si accorse
ben tardi che i suoi nemici mortali non erano i prussiani, ma i versagliesi e
tutto il suo eroismo, che disciplinato contro gli eserciti teutonici avrebbe
portato la Francia alla vittoria, si infranse contro le vili falangi dei
generali inoperosi e deboli contro i prussiani, ma tenaci ed energici fino alla
più assurda brutalità contro i parigini in rivolta. Quando il popolo di Parigi
si vide tradito dai dominatori prima dell'Impero,
poi della repubblica
borghese di Thiers,
non ebbe più freni e come un torrente infuriato inondò, distrusse disperse
quanti erano stati causa delle sue sventure, dando vita così ad uno dei momenti
più alti, se non il più alto in assoluto della storia dell’umanità: la Comune di
Parigi del 1871.
Sono passati da allora quasi
150 anni, ebbene, quale governo ha abolito, come appunto abolì la Comune, il
lavoro notturno? Quale concede pensioni a vedove e orfani di guerra,
indipendentemente dal fatto che il caduto fosse legalmente sposato o no? Dove si invitano gli operai a tenere
corsi ai ragazzi a scuola?
Era il tempo in cui i figli
dei poveri già a sei anni entravano in fabbrica per lavorare fino a 16 ore al
giorno: e la Comune
stabilì l'istruzione obbligatoria e gratuita per tutti. Era il tempo di
elezioni (quando c'erano) ristrette a pochi, e la Comune le
estese a tutti, dando inoltre al popolo la facoltà di revoca d'ogni carica
elettiva. Era il tempo in cui si pensava che le donne, eccezion fatta per le
puttane di lusso, mogli e amanti dei grandi personaggi, dovevano nella migliore
delle ipotesi restarsene a casa a fare la calza, nella peggiore macerarsi in
fabbrica quanto gli uomini con minor paga perché più «deboli». Ebbene, un
corrispondente del «Times», parlando delle donne della Comune,
commentò: «Se tutta la Francia fosse composta di queste donne, che grande
nazione sarebbe». Le troviamo dappertutto: a scuola, negli ospedali, nei circoli
politici, sulle barricate. “Vivere libere col fucile, o morire combattendo”,
era il loro motto. Quante di esse sono cadute nella difesa della Comune? Il
loro numero non è meno elevato di quello degli uomini. All'ufficiale di Versailles,
che sta per spararle perché ha ucciso dei soldati, una popolana risponde: «Dio
mi punisca per non averne ammazzati di più».
Il
decreto sulle
officine inattive presentato dal commissario Avrial
il 16
aprile, quello che in seguito della «vile fuga» di alcuni proprietari di
officine erano cessate molte attività necessarie alla vita della Comune con
una grave minaccia alle risorse vitali degli operai, fu di una importanza
inaudita, esso fu un passo effettivo verso la rivoluzione sociale, per la prima
volta nella storia si requisirono le fabbriche abbandonate e furono affidate a
cooperative di lavoratori che ne poterono curare la gestione, fu un esempio
pratico di autogestione.
La Comune
condonò alcune rate delle pigioni e prorogò di tre anni, senza interessi, il
pagamento di tutte le cambiali; parecchi decreti, che andavano dall'apertura di
uffici di collocamento comunali alla stipulazione di contratti collettivi,
anticiparono la moderna legislazione del lavoro ma rimasero, per forza di cose
(72 giorni furono pochi per realizzare tutto), allo stato di virtualità.
La Comune
aveva abolito per prima cosa gli alti onorari, molti operai si seppero
improvvisare impiegati e ricoprirono il nuovo incarico con grande zelo e
competenza. Un operaio cesellatore in bronzo, Albert
Frédéric Theisz, il 26
marzo, alla nascita della Comune, fu
eletto al Consiglio
della Comune e fece parte della Commissione Lavoro e Scambio, il 5
aprile divenne direttore delle poste, trovò un servizio quasi inesistente,
disorganizzato, con i valori rubati. Riunì tutti i dipendenti rimasti, li
arringò, e li convinse a passare alla Comune; in
breve la levata delle lettere e la consegna fu ristabilita in tutta la città,
si arrivò anche a far partire la corrispondenza per la provincia a mezzo di
agenti abili e coraggiosi; nonostante ciò non esitò a ritornare a combattere
con ardore sulle barricate durante la Settimana
sanguinante. Sfuggì alla repressione versagliese rifugiandosi a Londra,
dove lavorò come operaio e fece parte del Consiglio generale dell’Internazionale.
Tornò a Parigi grazie all’amnistia
del 1880, dove morì il 10 gennaio 1881. È sepolto al cimitero di Père
Lachaise.
Lo steso avvenne alla zecca
dove Zéphirin
Rémy Camélinat, un operaio anarchico montatore in bronzo, cesellatore nelle
decorazioni dell’Operà e amico di Proudhon,
aderente alla Guardia
Nazionale durante l’assedio di Parigi, il 3
aprile fu nominato direttore della Zecca e per mandare avanti la baracca
fece coniare nuove monete da 5 franchi con l’argento dell’argenteria che si
requisì. Anche lui si ributtò anima e cuore sulle barricate durante la Settimana
sanguinante ed evitò la repressione versagliese rifugiandosi in
Inghilterra, mentre la corte marziale lo condannava alla deportazione.
François
Jourde, impiegato in uno studio notarile ed eletto il 26
marzo al Consiglio
della Comune del 5°
arrondissement, il 29
dello stesso mese assunse la funzione di commissario delle finanze, riuscì a
presentare un bilancio talmente preciso, oltre che attivo, da costituire un
vero gioiello d’amministrazione ed un’eccezione in materia di bilanci pubblici;
nella relazione al bilancio lo stato delle finanze della Comune era
giudicato florido. In questo lavoro venne assistito da Eugène
Varlin: rilegatore, anarchico proudhoniano[1],
morto il 28
maggio quando ogni resistenza era ormai cessata, fu riconosciuto da un
prete in rue Lafayette e segnalato ai soldati di Versailles
che prima lo linciarono e poi lo fucilarono. Gli scrupoli legalitari di Jourde
impedirono di confiscare i fondi della Banca di Francia, indebolendo l’azione
della Comune
contro il governo di Thiers.
Fu lui l’autore del decreto che accordava una pensione alle donne, sposate o
meno, delle guardie nazionali cadute in combattimento. Arrestato dal governo di
Versailles
il 30 maggio, fu condannato il 2 settembre alla deportazione nella Nuova
Caledonia dove giunse nel novembre del 1872. Nella colonia penale di Nouméa
lavorò come contabile e fondò l’«Union»,
società di mutuo soccorso ai deportati. Evase il 21 marzo del 1874, raggiunse
l’Inghilterra, partecipò ad una sottoscrizione per i Comunardi
vittime della repressione. Tornò da Londra in Francia con l’amnistia
del 1880, senza più occuparsi di politica.
La Comune
nacque spontaneamente, favorita da cause concomitanti quali la guerra perduta,
le sofferenze dell'assedio, la disoccupazione operaia, la rovina della piccola
borghesia, l'indignazione contro un governo inetto e un'Assemblea Nazionale reazionaria.
Inizialmente sostenuta da un movimento patriottico che sperava ancora in una
guerra vittoriosa, dai piccoli commercianti, dai repubblicani timorosi di un
ritorno della monarchia, il peso maggiore fu sostenuto dagli operai e dagli
artigiani parigini, che si trovarono soli quando i repubblicani borghesi e i
piccoli borghesi se ne staccarono, spaventati dal carattere proletario,
rivoluzionario socialista e direi anche libertario del movimento. La necessità
di difendersi dall'attacco militare di Versailles
concesse poco tempo alle iniziative in campo sociale, ma sufficienti a
dimostrare che la Comune e
la bandiera
rossa sventolante sull'Hôtel
de Ville costituivano un pericolo mortale per il vecchio mondo fondato
sull'asservimento e sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Il primo
decreto della Comune fu
la soppressione dell'esercito permanente e la sua sostituzione col popolo
armato; veniva, così, a cadere
uno dei pilastri su cui si basava tradizionalmente l'autorità dello stato e il
popolo in armi assicurava la continuità rivoluzionaria essendo solo esso
garante di se stesso.
Nella
proclamata Comune
non esisteva un baricentro del potere. Le decisioni venivano prese in comune in
riunioni cittadine, in «assemblee» come diremmo oggi.
I
consiglieri municipali, eletti a suffragio universale, erano responsabili e
revocabili in qualsiasi momento. Inutile dire che erano in maggioranza operai.
Essi non avevano una funzione parlamentare, ma dovevano rappresentare un
organismo di lavoro, esecutivo e legislativo allo
stesso tempo. Questo non significava distruggere le organizzazioni
rappresentative, ma sostituire ad un organismo parlamentare borghese, in cui la
libertà di lavoro e discussione finisce per tramutarsi in inganno, un organo di
lavoro: cioè i parlamentari dovevano essere essi stessi a
lavorare, applicare le loro disposizioni,
verificarle e, quindi, essi in prima persona risponderne ai loro elettori, i
quali potevano, in ogni momento destituirli. E per evitare il
carrierismo e l'arrivismo, i Comunardi, oltre alla revoca; applicarono un metodo infallibile:
per tutti i servizi e pei ogni professione si pagava soltanto lo stipendio che ricevevano gli altri operai. I
benefici, le prerogative caratteristiche degli alti funzionari dello stato
scomparirono insieme ad essi.
Anche la
polizia, finì di essere un corpo separato
dalla società, strumento del governo centrale e docilmente manovrabile dalle
classi dominanti; venne spogliata da ogni attribuzione politica e trasformata
in un organo responsabile e sempre
revocabile dalla Comune.
La Comune
voleva abolire la proprietà; voleva abolire ciò che fa del lavoro di molti la
ricchezza di pochi. Essa voleva espropriare i padroni; voleva trasformare i
mezzi di produzione, che sono (ancora oggi) essenzialmente mezzi di
asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro
libero e associato.
La Comune
aveva dichiarato che avrebbe trasformato le (ancora odierne) sanguisughe:
notai, avvocati, uscieri e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali
salariati eletti dal popolo e davanti al popolo responsabili
La Comune “si
preoccupò, anche, di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei
preti, togliendo ogni investitura ed espropriando tutte le chiese in quanto
corpi possidenti (Karl Marx
- La
Guerra Civile in Francia)” I preti,
così spogliati dalle loro proprietà; perdevano ogni forma di
mantenimento a spese dello stato; la loro retribuzione, invece di essere
estorta dagli agenti delle imposte, doveva dipendere solo dall’azione spontanea
ispirata dai sentimenti religiosi dei parrocchiani, dovevano vivere, quindi, delle elemosine dei propri fedeli, come
il loro Dio aveva predicato.
Tutti gli
istituti di istruzione furono aperti al popolo gratuitamente e non più formalmente.
L'ingerenza della Chiesa e dello Stato fu eliminata. I magistrati e i giudici
furono elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri funzionari.
La Comune di
Parigi doveva essere il modello sulla base del quale si dovevano organizzare
tutti i grandi (industriali) e piccoli centri (rurali) della Francia, passando
dal vecchio governo centralizzato all'autogoverno.
Il vecchio governo
centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto, anche nelle province,
all'autogoverno del popolo. In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale,
che la Comune
non ebbe il tempo di sviluppare, è detto chiaramente che la Comune
doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo. Le Comuni rurali
di ogni distretto avrebbero dovuto amministrare i loro affari comuni mediante
un'assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee
distrettuali avrebbero dovuto loro volta mandare dei rappresentanti alla
delegazione nazionale a Parigi, ogni delegato essendo revocabile in qualsiasi
momento e legato al mandat impératif
(istruzioni formali) dei suoi elettori.
La Comune portava con se, come conseguenza naturale, la
libertà municipale locale, ma non più come contrappeso al potere dello Stato. Quindi per il solo fatto che esisteva la Comune, il potere
dello Stato diventava superfluo.
L'esercito
permanente avrebbe lasciato posto alla milizia popolare con un periodo di
servizio estremamente breve, in maniera da evitare il formarsi di una nuova
casta di militari e di un potere contrario agli interessi del popolo.
Vediamo intanto a quali
teorie, a quali ideali s’ispirano gli uomini del Comitato
Centrale e dei tanti gruppi che balzarono alla ribalta della Comune.
Benché Marx
abbia già teorizzato la lotta di classe, la sua influenza diretta sul
proletariato era molto scarsa e si manifestava soprattutto nei circoli dell'Internazionale operaia, la cui sezione parigina era però dominata dai seguaci del pensiero
di Auguste
Blanqui e di Joseph
Proudhon. I blanquisti[2]
costituivano la fazione più compatta e risoluta. Esigevano l'abolizione della
proprietà privata, avevano spiccatissimo il gusto della cospirazione e
dell'avventura, e già nell'agosto 1870, poco dopo l'inizio della guerra
franco-prussiana, tentarono senza successo di occupare alcune piazzeforti
di Parigi. Non ritenevano necessario indottrinare le masse e pensavano che
bastava una minoranza decisa, spavalda, per fare piazza pulita dell'ordinamento
borghese.
I proudhoniani[1], durante l'Impero,
avevano badato soprattutto ad organizzare casse di mutuo soccorso e a
migliorare le condizioni dei lavoratori, uno dei cardini del loro programma era
il decentramento amministrativo, il federalismo. A differenza dei blanquisti[2],
che erano in fondo una società segreta di carbonari rossi, i proudhoniani[1]
agivano allo scoperto e reclutavano moltissimi seguaci fra gli artigiani e la
piccola borghesia.
Bakunin
sottolineò l'unità d'intenti socialisti mostrata dai delegati del Consiglio
e il loro progetto di riorganizzare l'assetto istituzionale in senso
federalista, che l'altro anarchico James
Guillaume considerava la principale caratteristica della rivoluzione parigina: “Non c'è più uno Stato, non c'è più un potere
centrale superiore ai gruppi che impongano la loro autorità; c'è solo la forza
collettiva risultante dalla federazione” e poiché non esiste più lo Stato
centralizzato e “i comuni godono della
pienezza della loro indipendenza, c'è la vera anarchia”.
La Comune
riservò sin dal suo principio grande importanza all'individualità: libertà
d'espressione, di coscienza, di lavoro e d'intervento nelle decisioni comunali.
L'aspetto caratterizzante di
quest'esperienza fu il localismo, la rivolta contro il potere centralizzato e
la distruzione dello Stato politico quale centro di controllo autoritario. La Comune non
fu uno Stato quindi, bensì la sua negazione, e perciò essa doveva anche,
dinanzi alle esigenze militari, conservare il suo carattere democratico e
seguitare a basarsi sulle piccole comunità locali di cui Parigi era composta.
Gli anarchici essendo
essenzialmente federalisti volevano un sistema in cui il potere, per quanto ne
sarebbe rimasto, fosse attribuito a gruppi locali, mentre ogni organismo
operante su un campo più vasto non doveva avere che funzioni delegate.
Concludendo si può certamente
dire che la Comune
di Parigi non fu un'esperienza prettamente anarchica (per l'improvvisazione
con cui si costituì, per le diverse anime che furono presenti ecc.) ma,
indubbiamente, ne assunse alcune caratteristiche che le diedero, con tutte le
critiche possibili, un carattere libertario.
Si era sviluppata una
situazione ideale che nessun governo rivoluzionario si era mai sognato di
immaginare prima: un esercito a disposizione il cui numero varia, secondo
diverse fonti, dai 60.000 ai 200.000 uomini, senza contare l’apporto dato da
tutti i cittadini compresi i giovani e, soprattutto, le donne; un apparato di
difesa eccezionale costituito da ben sei forti che gli stessi prussiani non
avevano potuto espugnare. Se a questo si aggiunge l’esistenza di una zona
neutra (quella occupata dai prussiani) attraverso la quale i rifornimenti
potevano entrare regolarmente a Parigi senza essere molestati, il possesso
dell’immenso tesoro della Banca di Francia valutato a circa tre miliardi di
franchi, il generale entusiasmo di tutti, in quanto tutti si rendevano conto
dell'eccezionalità dell'esperimento e del fatto che per la prima volta non si
lavorava e non si moriva per un re o per un Bonaparte ma per se stessi, per una
comunità, si potrà avere un quadro esatto della situazione rivoluzionaria della
Comune.
Eppure con tutte queste
condizioni favorevoli il risultato non fu positivo, e questo perché la Comune
commise degli errori che favorirono la reazione governativa, come la mancata opposizione
alle truppe in ritirata, una responsabilità che grava su Charles
Lullier, il nuovo comandante della Guardia
nominato dal Comitato
Centrale.
L'errore più grave fu
probabilmente quello di non attaccare immediatamente Versailles,
come affermó lo stesso generale
Vinoy, scrivendo di “errore
gravissimo e irreparabile”, perché il Comitato
Centrale non utilizzò “tutti i
vantaggi inaspettatamente conseguiti. In quel momento tutte le probabilità
erano dalla sua parte. Esso avrebbe dovuto tentare l'attacco il giorno seguente”.
In effetti, gli uomini del Comitato
Centrale non avevano nessun piano militare perché essi stessi erano rimasti
sorpresi dall'insurrezione spontanea della popolazione: “essi non l'avevano prevista e non avevano fatto nulla per organizzarla.
Solo la disgregazione dell'esercito eccitò la loro audacia (sempre parole
di Vinoy)”.
Anche per Marx,
un errore fondamentale fu quello di perdere tempo nell'eleggere legalmente la Comune, invece di marciare subito su Versailles. Ciò avrebbe permesso di far retrocedere almeno
il fronte della battaglia in modo da creare uno spazio vitale intorno a Parigi,
necessario non solo per il vettovagliamento, ma indispensabile perché così
sarebbero state possibili le comunicazioni con il resto della Francia. I
tentativi rivoluzionari che vi furono
in altre città (Marsiglia,
St.
Etienne, Narbonne,
Bordeaux,
Montepellier, Tolosa,
Grenoble ecc.) avrebbero potuto essere meglio organizzati e coordinati tra
loro, oltre al fatto che avrebbero potuto trarre beneficio dalla conoscenza
della verità su ciò che accadeva a Parigi. Invece intorno ad essa fu fatto un
cordone sanitario e le fu impedita ogni comunicazione, mentre i veri
rivoluzionari non sapevano niente di ciò che effettivamente accadeva, se non le
calunnie dei giornali borghesi.
Un altro
errore fu quello di non aver voluto impadronirsi delle riserve auree e
monetarie della banca di Francia. “Il governo, fuggendo a Versailles, aveva lasciato le
casse vuote, narra Louise
Michel, gli ammalati negli ospedali, il servizio di ambulanza e
funerario erano senza risorse; gli uffici in disordine. Varlin
e Jourde
ottennero 4 milioni dalla Banca, ma le chiavi erano a Versailles, e non vollero forzare
le casseforti; chiesero allora a Rothschild un credito di un milione che fu
versato alla Banca”. Cosa spinse il finanziere
francese Rothschild a concedere tale finanziamento? Probabilmente questa
decisione fu influenzata in maniera determinante dalla pressione esercitata
dalla borghesia francese cui premeva innanzi tutto che le riserve della
Banca non fossero lese. La semplice concessione del
prestito da parte del Rothschild avrebbe consentito ai Comunardi
di continuare la resistenza senza ricorrere alle riserve della Banca, sino a
quando non fossero state a disposizione le forze militari sufficienti a
batterli definitivamente. Non è da escludere che lo stesso Bismarck,
così come aveva aiutato Thiers
restituendo i prigionieri di Metz e Sedan allo scopo di ricostituire l’esercito
per combattere contro Parigi, facesse pressione su Rothschild perché concedesse
il prestito in nome della solidarietà borghese.
Eppure
l'impadronirsi delle riserve della Banca avrebbe potuto aiutare molto nella
lotta contro la borghesia: solo in questo caso essa avrebbe premuto su Versailles perché si concludesse la pace. In definitiva, il
controllo della Banca di Francia avrebbe dato loro una forza di contrattazione
ben più grande di quella che poteva dare la sola forza militare. Avrebbe anche
significato avere i mezzi finanziari per alimentare la rivoluzione non solo a
Parigi, ma anche nel resto della Francia.
Siffatto
errore si può spiegare solo per il perdurare di certi pregiudizi borghesi in
alcuni settori dello schieramento rivoluzionario, come i
giacobini e i blanquisti[2] che da poco tempo avevano radicalizzato le proprie
posizioni, e anche per il fatto che i Comunardi
peccarono di ingenuità politica, data la loro inesperienza, essendo i
protagonisti del primo tentativo rivoluzionario del proletario.
I Comunardi
non hanno saputo espropriare i ladri. Essi che hanno abolito polizia ed
esercito; essi che hanno abbattuto la
colonna di place Vendôme, simbolo di oppressione, perché fusa col bronzo di
1200 cannoni conquistati dal primo Napoleone; essi che hanno sanzionato che
soli sacrifici leciti sono quelli che le masse sanno imporre ai signori; essi,
ancora incrostati d'ideologia, si sono fermati sulla soglia del Tempio
Bancario. Fosse dipeso dalle donne (che dovevano, oltre tutto, far da mangiare
per i rispettivi figli e mariti), è probabile che un così tragico errore non
sarebbe stato commesso.
Ma anche
se non hanno saputo espropriare il nemico, travolgerlo col terrore prima di
cader vittime del suo terrore, i Comunardi
hanno dato veramente l'assalto al cielo; e non per un ideale, ma per estirpare
il vecchio (il capitalismo) perché finalmente sorgesse il nuovo (il
libertarismo); per porre fine, in altri termini, allo sfruttamento (e
conseguentemente alla repressione, alla guerra, alla devastazione dell'uomo e
della natura), e dare inizio alla storia umana, una storia di liberi e di
uguali, per i quali le risorse sono di tutti (non solo uomini, ma anche piante
e animali, tutti indispensabili alla continuazione della vita sulla Terra).
Solo chi
mira alla perpetuazione del dominio dell'uomo sull’uomo, imbalsama il passato,
per farne il proprio feticcio di legittimazione.
Altra
incertezza che ebbero i Comunardi
fu di non sequestrare le industrie capitalistiche, sebbene alla fine gli operai
finirono per impadronirsi di quelle aziende che erano state abbandonate dai
proprietari fuggiaschi.
Parigi si proclamò Commune,
Comune, rivendicando quelle libertà municipali di cui aveva goduto intorno al XII secolo. I Comuni medievali, in Francia, non erano
stati fiorenti come nella penisola italiana giacché la monarchia francese aveva
subito imposto il suo centralismo burocratico, ma questo richiamo al lontano
passato fu un modo di affermare il diritto dei parigini all'autogoverno. La Commune
(arbitrariamente tradotta in italiano «La Comune» al femminile anziché al
maschile, come vorrebbe la nostra lingua) fu un'entità storica piuttosto
effimera, ma il suo nome è chiamato adesso ad interpretare la volontà di
emancipazione di un proletariato che, a Parigi, si addensò più numeroso che in
qualsiasi altra città di Francia e d'Europa. A Parigi arrivarono proletari da
tutta Europa: ci furono polacchi, italiani, tedeschi, ungheresi pronti a
incrociare il ferro in difesa della Comune, e ciò era
dovuto alla credenza, ancora abbastanza diffusa nel 1871, secondo cui era
sufficiente l'unione fraterna dei popoli per migliorare le sorti del
proletariato che lavorava sedici ore al giorno nelle fabbriche malsane e viveva
in condizioni penosissime.
A questa fiducia di molti «internazionalisti»,
Marx
già contrapponeva la dura dialettica che andava svolgendo in seno all'Associazione Internazionale dei Lavoratori, ma era un sentimento romantico avvolto da
un’ideologia libertaria a prevalere nell'animo dei volontari accorsi a Parigi
da ogni parte d'Europa. Marx,
comunque, si era illuso su un punto, aveva creduto che la solidarietà
universale del proletariato avrebbe impedito a Bismarck
di trasformare in guerra offensiva quella che, agli inizi, si presentava come
una legittima difesa della Prussia dalle mire di Napoleone
III.
I soldati prussiani non si erano limitati a difendere il suolo patrio, ma
avevano allegramente invaso il territorio francese per una guerra di.
conquista: il virus nazionalista aveva avuto il sopravvento sui proclami dell'Internazionale.
Chi erano i gruppi politici e
gli uomini che si preparavano all’insurrezione?
Innanzi tutto bisogna citare
una delle più belle figure di operaio internazionalista,
fucilato dai versagliesi dopo averlo orrendamente torturato: Eugène
Varlin, anarchico d’ispirazione bakuniana che si dedicò completamente alla
causa della classe operaia. Aveva amicizie anche tra gl'intellettuali
giacobini, era, quindi, l'uomo adatto a stabilire il contatto politico tra
questi e gli anarchici.
Appena seppe della
proclamazione della repubblica, Varlin,
che era a Bruxelles, si recò subito a Parigi e riprese la parte preponderante
in seno al Consiglio Federale dell'Internazionale.
Le sezioni parigine dell'Internazionale
erano molto disorganizzate ed ancora deboli. Varlin
capì, però, che non era il momento per cercare di riorganizzarle e rafforzarle,
perché urgeva mirare dritto allo scopo: rovesciare il governo e preparare la
rivoluzione. Un accordo con i giacobini era certo più importante. Non si è a
conoscenza dei termini di questo accordo comunque da allora in poi anarchici e
giacobini mantennero la loro alleanza sino alla fine della Comune.
Chi erano questi giacobini? “Ci
sono giacobini avvocati e dottrinari come il signor Gambetta...
vi sono poi giacobini sicuramente rivoluzionari: gli eroi e gli ultimi
rappresentanti onesti della fede democratica del 1793, capaci di sacrificare la
loro unità e la loro autorità tanto amate, alla necessità della rivoluzione...
Questi giacobini magnanimi vogliono il trionfo della rivoluzione innanzi tutto.
Ma siccome non c’é rivoluzione senza masse popolari, e siccome in queste è oggi
sicuramente sviluppato l'istinto socialista, i giacobini non possono più fare
altra rivoluzione che non sia economica e sociale; e così giacobini di
buonafede, lasciandosi vieppiù trascinare dalla logica del movimento
rivoluzionario, finirono per diventare socialisti loro malgrado (Bakunin)”.
Repubblicani radicali,
malgrado la loro buona volontà e la loro fede, non ebbero il tempo,
nell’incalzare degli avvenimenti, di sopprimere e superare una serie di
pregiudizi borghesi contro il socialismo, cosicché la loro azione ne risultò
come frenata, inibita, anche se poi vennero trascinati dagli avvenimenti e
finirono per avvallare ciò che il popolo credeva opportuno fare. I loro
obbiettivi politici erano le libertà democratiche, come la laicità della scuola
e la libertà di stampa. La loro base sociale risiedeva nell'intellettualità
della piccola borghesia e il loro modello di riferimento era la Repubblica
giacobina espressa dalla Grande Rivoluzione, che del resto esercitava ancora un
certo fascino anche negli altri gruppi rivoluzionari. Non a caso i blanquisti[2] Humbert,
Vermersch
e Vuillaume
fondarono il quotidiano Le
Père Duchêne, richiamandosi all'omonimo giornale di Hébert e il proudhoniano[1]
Vermorel
pubblicò i discorsi di Danton, di Marat, di Robespierre e di Vergniaud. Figure
rilevanti di neo-giacobini furono Louis
Charles Delescluze, Charles
Ferdinand Gambon, Jules
Miot e Félix
Pyat.
Un altro gruppo numeroso era
rappresentato dai blanquisti[2] i quali possedevano un'efficienza non
facilmente riscontrabili in altri gruppi. Erano nella maggioranza socialisti
per istinto rivoluzionario: così si comprende come nel campo economico furono
da loro trascurate parecchie cose. Non si concepisce, ad esempio il sacro
rispetto che li caratterizzò davanti alle porte della Banca di Francia. Essi
comunque si preoccuparono esclusivamente dall'azione insurrezionale e dei
metodi di lotta rivoluzionari; ponevano in primo piano la necessità della
conquista del potere politico. Educati alla scuola della cospirazione,
ritenevano che un numero relativamente piccolo di uomini decisi ed organizzati
ferreamente potesse impadronirsi del potere e mantenerlo fino a quando non fosse
riuscito a lanciare la massa del popolo nella rivoluzione, e una volta
impadronitisi del potere, avrebbero instaurato un governo dittatoriale,
necessario per stroncare ogni opposizione e, insieme, per attirare a sé le
masse popolari. Erano, quindi, i fautori dell'accentramento più energico e
dittatoriale. “Il comunismo non si realizza con i decreti (aveva scritto Blanqui)
ma sulla base di decisioni prese volontariamente dalla nazione stessa, e queste
decisioni possono avvenire solo sulla base di una larga diffusione
dell'istruzione”. Tra i blanquisti[2] parteciparono attivamente alla
Comune:
Casimir
Bouis, Frédéric
Cournet, Gaston
Da Costa, Émile
Eudes, Théophile
Ferré, Gustave
Flourens, Ernest
Granger, Alphonse
Humbert, Victor
Jaclard, Eugène
Protot, Raoul
Rigault, Gustave
Tridon, Édouard
Vaillant. Per fortuna, malgrado fossero la maggioranza, non ebbero
influenza nella Comune.
Essi furono responsabili degli atti e delle azioni politiche, mentre dei
decreti economici furono responsabili in prima linea gli anarchici,
comprendendo sotto questo nome i bakuniani
e i proudhoniani[1].
In Francia erano molto diffuse
le teorie proudhoniane[1], secondo le quali occorreva conciliare lavoro e
capitale. Ogni cittadino doveva essere un produttore di beni, “un uomo
libero, un vero signore che agisce per propria iniziativa e sotto la sua
personale responsabilità, sicuro di ricevere per il proprio prodotto e per i
suoi servizi la giusta remunerazione”.
Una banca popolare avrebbe
elargito credito a basso interesse ai produttori di merci il cui valore sarebbe
stato determinato dal tempo di lavoro necessario a produrle. I prodotti
sarebbero andati al mercato e i produttori avrebbero ricevuto un numero di
buoni equivalenti alle ore lavorate, con i quali avrebbero potuto comperare
merci e servizi a loro necessari. In questo modo ciascuno avrebbe ricevuto il
giusto compenso per il proprio lavoro e avrebbe acquistato al giusto prezzo i
prodotti altrui. Questo, chiamato da Proudhon
mutualismo, è “un sistema d'equilibrio tra le forze libere, in cui a ogni
forza sono assicurati eguali diritti, a condizione che adempia eguali doveri; e
a ogni forza è data la possibilità di scambiare servizi con servizi
corrispondenti”.
I proudhoniani[1] erano nemici
dello Stato e immaginavano la nazione organizzata in una federazione di città:
“ogni gruppo etnico, ogni razza, ogni nazionalità ha il pieno dominio del
proprio territorio; ogni città, fidandosi della garanzie dei vicini, ha il
pieno dominio della zona che entra nel suo raggio d'azione. L'unità non è
assicurata da leggi, ma soltanto dagli impegni che i diversi gruppi autonomi
assumono reciprocamente». Ogni
comune doveva essere sovrano: “il comune ha diritto all'autogoverno,
all'amministrazione, alla riscossione dei tributi, alla disponibilità della sua
proprietà e delle sue imposte. Ha il diritto di costruire scuole per la sua
gioventù, di nominare gli insegnanti, di avere la sua polizia, i suoi gendarmi
e la sua Guardia
Nazionale; di designare i giudici, di avere giornali, di tenere assemblee,
di possedere società private, imprese, banche”.
Tuttavia i seguaci di Proudhon
non costituivano un folto gruppo, ma tra di essi ricordiamo: Augustin
Avrial, Charles
Beslay, François
Jourde, Charles
Longuet, Benoît
Malon, Albert
Theisz, Eugène
Varlin, Auguste
Vermorel.
Altri elementi di spicco della
rivoluzione parigina furono l'ex garibaldino e anarchico Amilcare
Cipriani, il pittore Gustave
Courbet, gli anarchici André Léo,
Gustave
Lefrançais, Louise
Michel ed Élisée
Reclus.
Non bisogna dimenticare che la
Comune
coincide con la fase più acuta del conflitto Marx-Bakunin
in seno alla 1ª Internazionale e che le sezioni francesi di quest’ultima erano nettamente
orientate a favore del secondo il quale, sebbene non fosse presente, aveva a
Parigi, tramite Varlin
e i suoi amici, molta influenza, non nel senso che a Parigi si aspettavano sue
direttive, ma che ci si ispirava a lui e al suo collettivismo nel prendere le
più importanti iniziative economiche,
Certo è, comunque, il fatto
che né Marx
né Engels ebbero alcuna influenza sulla Comune.
Engels scrisse in seguito a Sorge: “l’Internazionale
non ha mosso un dito per favorire la Comune”.
Varlin,
è vero, era uno dei due segretari del comitato federale parigino dell’Internazionale,
ma non fu in tale qualità che lavorò per la Comune. I
verbali delle sedute del Consiglio Federale non contengono quasi accenno del
movimento che poi sfociò nella Comune.
Qualcuno dei membri influenti dell'Internazionale
prese certo parte attiva all’instaurazione di essa, ma il Consiglio Generale di
Londra, di cui faceva parte Marx,
non mosse davvero un dito.
Bakunin
non prese parte alla preparazione: dopo il fallimento dell’insurrezione a
Lione. tutte le speranze da lui riposte nella Francia si erano affievolite. per
non dire annullate: “non ho più alcuna fiducia nella rivoluzione in Francia,
questo paese non è più per nulla rivoluzionario” disse. Ciò nonostante egli
era ancora dell`avviso che solo “la rivoluzione sociale avrebbe potuto
salvare il popolo francese”. Ma i suoi amici e seguaci questa volta non lo
ascoltarono: se a Lione si era
fallito. ciò era dovuto al fatto che non ci si era preparati a sufficienza: per
questo i parigini non erano ancora insorti e stavano preparando la loro
rivoluzione. La battaglia era imminente: essi mettevano ordine alle loro fila.
Il 18
Marzo il momento nazionalista era ormai completamente superato, il
popolo parigino ormai aveva
fatto una netta distinzione tra borghesia e classi sfruttate ed era giunto alla
consapevolezza, non più istintiva, ma ideologica, della contrapposizione fra i
propri interessi e quelli della classe dominante: lo
dimostra il fatto che la Comune, in uno dei suoi primi proclami, dichiarò che le
spese di guerra dovevano essere pagate
da coloro che erano stati i veri autori di essa. Si era compreso come dietro lo
«Stato» francese che combatteva contro lo Stato prussiano, non stessero tutti i
francesi, ma solo la borghesia.
Ma come
era avvenuta questa crescita di coscienza nelle masse? Era forse calata
dall'alto? No: “I nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato ch'essa
(una rivoluzione sociale) non poteva essere fatta e condotta al suo completo
sviluppo che mediante l'azione spontanea e continuata delle masse, dei gruppi e
delle associazioni popolari” disse Bakunin.
Erano convinti che l'azione delle masse doveva esser tutto: “tutto ciò che
gli individui possono fare è di elaborare, di chiarire, e di propagare le idee
corrispondenti all'istinto popolare e, di più, di contribuire coi loro sforzi
incessanti all'organizzazione rivoluzionaria della potenza naturale delle
masse. Ma nulla oltre a ciò; tutto il resto non può e non deve essere fatto che
dal popolo stesso; altrimenti si arriverebbe alla dittatura politica, cioè alla
ricostituzione dello stato, dei privilegi, delle ineguaglianze, di tutte le
oppressioni dello stato, e per una via indiretta, ma logica, si arriverebbe
alla restaurazione della schiavitù politica, sociale ed economica delle masse popolari
(Bakunin)”.
Il tipo di
maturazione che ebbe allora la classe operaia, la progressiva radicalizzazione
della lotta e il coinvolgimento in essa di ceti piccolo borghesi, dimostra un
altro aspetto estremamente interessante: soltanto nella lotta pratica e nello
scoprire non più a livello ideologico, ma nella prassi, le contraddizioni del sistema borghese, che a una formale libertà
associa sempre una reale repressione e sfruttamento della classe operaia, i
proletari prendono coscienza totalmente della propria collocazione di classe.
Solo dopo che la contraddizione esplode nella realtà, essa può sboccare completamente
nella coscienza degli individui e si trasforma da ideologia e teoria
rivoluzionaria in prassi sovvertitrice
della società costituita.
Bertolt Brecht, nel dramma I
giorni della
Comune, fa chiaramente
intendere che una delle principali cause della sconfitta è stata l'incapacità
(prevalentemente ideologica). dei Comunardi
di contrapporre al terrore della borghesia il terrore del proletariato. Egli
mette in bocca a Varlin
queste parole pronunciate al Consiglio
della Comune: “Cittadini delegati, si dice che le donne dei soldati di Versailles piangano, ma le nostre non piangono. Volete
abbandonarle impotenti nelle mani di un nemico che non ha mai indietreggiato
davanti alla violenza? Qualche settimana fa si è detto: le operazioni militari
non sono necessarie, Thiers
non ha truppe, sarebbe la guerra civile sotto gli occhi del nemico. Ma la
nostra borghesia non ha esitato a legarsi col nemico della nazione, per
condurre contro di noi la guerra civile. Da questo nemico la borghesia ha
ricevuto delle truppe: contadini della Vandea che erano caduti in prigionia,
forze fresche, cui non è potuta arrivare la nostra parola. Nessun conflitto fra
due borghesie potrà mai impedir loro di unirsi immediatamente contro il
proletariato dell'una o dell'altra: Si è anche detto: niente terrore! Che
diventerebbe altrimenti l'epoca nuova? Ma Versailles esercita il terrore e ordinerà un massacro
generale, così che nessuna epoca nuova possa avere inizio. Se saremo sconfitti,
sarà per la nostra indulgenza, che è sinonimo di ignoranza. Cittadini, vi
scongiuro, impariamo finalmente dal nemico!”
Si direbbe che mentre tanti Comunardi,
che pur hanno dimostrato di sapersi battere eroicamente, sono rimasti vittime
delle proprie ideologie utopistiche, cosicché,
ancora sulla soglia del tragico finale, discutono sulla violenza, e c'è chi
gridava: “è una bestemmia” al blanquista[2] Raoul
Rigault che dichiarava: “esigo solo terrore contro terrore”, le
donne della Comune, che da sempre conoscevano l'incommensurabile
violenza del potere, ritenevano del tutto normale che solo col fucile si possa
vivere liberi. Quanto avessero ragione, lo si è visto alla conclusione della
tragedia, quando le truppe di Versailles son potute penetrare a Parigi, ed è incominciata
la così detta Settimana
sanguinante (cui Brecht fa assistere, da Versailles con i binocoli, la classe al potere, che esclama
estatica: “quale sublime spettacolo!”).
La Comune, fu una «leva» per distruggere le basi economiche
su cui si appoggia l'esistenza delle classi, e quindi il dominio di classe; fu
anche una «leva» per distruggere lo Stato che si regge su quelle basi. E,
d'altra parte, che Stato sarebbe quello in cui l'esercito permanente scompare,
la polizia finisce di avere il compito repressivo, la Chiesa viene resa
autonoma e non parassita, i funzionari revocabili in ogni momento, i salari
uguali a quelli operai, l'istruzione gratuita ecc.? Che Stato sarebbe uno stato
che ormai ha perso ogni attributo tipico di esso? Ecco il significato della
parola estinzione: con la Comune lo Stato si sarebbe estinto, ma non per fare
posto ad un altro organismo repressivo, che poi altro non sarebbe che
un'altro Stato, la macchina statale sarebbe stata spezzata in maniera
definitiva solo per lasciare che la società civile, che gli operai, i contadini
e il popolo in genere si governassero da se, senza nessuna delega (come è
intesa oggi) né sottomissione.
Ecco il
perché del significato profondo dell’esperienza della Comune, il perché una sconfitta della classe operaia
viene ancora oggi celebrata.
ll nazionalismo che
caratterizzava gli operai francesi prima della rivoluzione
del 18 marzo non era certo un elemento rivoluzionario in se, anzi poteva
essere considerato un puntello, un fattore per stringere attorno alla borghesia
guerrafondaia tutta la nazione francese e fare così passare in secondo piano le
contraddizioni interne che opponevano
gli operai ad essa. Si poteva rivelare un supporto per la politica espansionistica
di Luigi
Bonaparte il quale tentava, con un vecchio stratagemma caro alle classi
dominanti, di unificare il paese contro il nemico esterno e così superare le
difficoltà interne con un bagno di sangue, naturalmente, di proletari e operai.
Non fu così: borghesia e
burocrazia si rivelarono incapaci non solo di risolvere le contraddizioni
sociali, ma anche di condurre una guerra, tale era il disfacimento e la
decadenza in cui ormai versavano. La guerra, che doveva salvarle dalla
rivoluzione sociale, si stava per rivelare la loro tomba, ed il nazionalismo,
di cui prima avevano gioito, in una trappola mortale. Tanto più pericolosa
quanto più essi cercavano di soffocarlo, fino a quando non furono costretti. a
gettare la maschera e a concludere un armistizio. Il loro nemico ormai non era più il prussiano,
ma il parigino armato non solo del fucile ma di una coscienza rivoluzionaria
che solo nella lotta si era potuta sviluppare.
La Comune ci ha fatto
capire che da una parte bisogna abolire la vecchia macchina repressiva dello
Stato, e dall'altra che bisogna assicurarsi contro i propri deputati e
impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento
revocabili. Non si tratta, quindi, di trasferire da una mano
all'altra il potere dello Stato, di mettere al posto dei vecchi burocrati altri
burocrati che dovrebbero fare gli interessi del popolo, ma che poi finiranno
per fare solo i propri. Il popolo deve spezzare, demolire la
macchina statale e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene. Ma
spezzare e demolire lo stato non significa costruirne uno nuovo, o uno
proletario (come intendevano Marx o
Lenin con la loro «dittatura del proletariato»), in sostituzione di quello
vecchio. Per Stato non si intende solo lo stato borghese, ma ogni tipo di
Stato, anche quello «popolare». Non fu dunque una rivoluzione contro la forma
di potere statale legittimista, costituzionale, repubblicano, imperiale, la Comune fu una rivoluzione contro ogni tipo di Stato.
Questo é
l'insegnamento principale della Comune e questa era la strada verso la quale essa si
stava avviando se la borghesia non avesse prematuramente soffocato il suo
tentativo.
Il diritto uguale di tutti ai
beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la
negazione di ogni freno morale, ecco, se si scende alla radice delle cose, la
ragion d’essere dell’insurrezione
del 18 marzo. Là “il socialismo
rivoluzionario ha tentato una prima manifestazione magnifica e pratica (Bakunin)”.
Coloro che parlano di
rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita
quotidiana, senza comprendere ciò che vi è di sovversivo nell’amore, nella
fratellanza, nella cooperazione, nella divisione dei beni e di positivo nel
rifiuto radicale di tutte le costrizioni, si riempiono la bocca di escrementi.
La Comune è
stata la più grande festa del 19° secolo. Alla base di essa si trova la
convinzione degli insorti di essere divenuti padroni della loro propria storia.
La Comune non
ha avuto capi. E questo in un periodo storico nel quale l’idea che fosse
necessario averne dominava completamente il movimento operaio.
L'esperimento
della Comune
di Parigi rimane, nonostante la sconfitta, un'esperienza assolutamente
valida per gli insegnamenti che da essa possono trarre anche le attuali forze
rivoluzionarie. Un filo ideologico parte infatti dalla Comune e la lega all'occupazione armata delle fabbriche
in Italia agli inizi del ‘900, alla lotta dei Machnovisti in Ucraina, alla
ribellione di Kronstadt, all'autogestione e alle Comuni agricole organizzate
dalla CNT-FAI in Spagna durante la guerra civile, alla comunità La Cecilia
nello stato brasiliano del Paranà fino ad arrivare a Cristiania in Danimarca.
Tale filo
conduttore si determina in una parola, in una esperienza storica in cui si
configura l'essenza stessa del socialismo: autogestione. Autogestione a tutti i livelli da
parte del popolo in lotta, di
ogni strumento rivoluzionario e di organizzazione sociale.
Marx
nel 1871 fu costretto dalla forza degli eventi a sottoscrivere in termini
entusiastici il federalismo anarchico dei Comunardi
proprio mentre, in seno all'Internazionale,
tendeva invece a centralizzare, all'interno del Consiglio Generale di Londra,
la struttura del movimento operaio contrapponendosi ai bakuninisti.
Così
il Lenin pseudo-libertario di «Stato e Rivoluzione» fortemente
influenzato dal movimento libertario che si sviluppava sul territorio
sovietico, assume un'ambiguità sconcertante circa la concezione della società
rivoluzionaria, salvo poi a rimangiarsi tutto, riproponendo i termini del
«centralismo democratico», ponendo così le basi della involuzione politica del
movimento proletario russo, dello sterminio di tanti compagni sinceramente
rivoluzionari, dello stalinismo e del revisionismo contemporaneo, come logica
conseguenza di ogni struttura burocratica e gerarchica.
Così
fallisce l'esperienza centralizzatrice del Partito rivoluzionario
come astrazione dalla classe operaia allo stesso modo che lo Stato lo è nei
confronti della società.
È questa
l'indicazione che nasce dall'esperienza comunarda.
È questa
la concreta proposta di «azione diretta» che gli anarchici, i sinceri
rivoluzionari con le loro lotte autonome, autogestite, continuamente slegate
dai vertici sindacali e dai partiti riformisti traditori della classe operaia,
fanno oggi a tutto il movimento popolare anticapitalista,
antimperialista e antirevisionista contemporaneo, sulla traccia libertaria
iniziata nel 1871 con la Comune di
Parigi.
Se si pensa che tutto questo
ed altro, specie nel campo dell’istruzione, delle biblioteche, della lotta
contro la chiesa, della propaganda a mezzo dei giornali, fu compiuto in appena
72 giorni, ci si rende conto che la produttività fu massima e che ognuno fece
quando ha potuto ed anche di più. Ci furono, naturalmente, delle eccezioni che
vennero comunque circoscritte ed eliminate dall’incarico.
È proprio questo il principio
che ha retto la Comune e
che deve reggere il fondamento di qualsiasi rivoluzione proletaria e della
successiva organizzazione: la delega in base alla funzione, non più in base al
titolo, al casato o all’acquisto di consensi, di voti, ma soltanto in base alla
funzione; naturalmente con la premessa indispensabile della removibilità.
In questo si vede il più alto
insegnamento della Comune, in
quanto si vede l’indirizzo anarchico e l’organizzazione libertaria della Comune
parigina che fu spontanea, senza organizzazione partitica o di gruppi
organizzati, senza capi; socialista, anarchica, fatta di uguali, dove ci furono
si delle deleghe, ma fatte con consenso popolare ed in qualsiasi istante
revocabili sempre col volere del popolo.
Questo fenomeno, in quella
sede, non fu che un lampo appena (in altre sedi successive, come in Ucraina dal
1917 al 1921 e in Spagna nel 1936, l’esperimento poté durare più a lungo), ma
ci da la speranza e soprattutto la convinzione che un giorno non lontano
l’esperimento possa passare a fatto definitivo.
Tutti noi dobbiamo raccogliere
e riplasmare l’eredità spirituale e materiale della Comune di
Parigi, non dimenticando la sua gente: donne, uomini e anche giovani morti
con la speranza di averci dato un insegnamento: si può, si deve creare un mondo
nuovo. Anche se ultimamente diminuita, la volontà della massa operaia non
manca, la sua capacità produttiva è sempre più ampia, la sua rottura con le ristrette
cerchie degli sfruttatori capitalisti continua ad essere decisa; resta solo di
evitare che una nuova marea di oratori, di letterati, di sognatori in buona e in mala fede, riesca a montare
all’assalto della realtà rivoluzionaria, … il resto non tarderà a venire.
La conquista
del cielo è possibile!
[1] Per proudhoniani s’intendono
definire i seguaci del filosofo francese Pierre-Joseph
Proudhon, fondato essenzialmente sul mutualismo e sul federalismo, da molti
studiosi inserito impropriamente nell’ambito di quello che Marx
definì socialismo utopistico. L’anarchismo proudhoniano educa i seguaci ad una
società libera e federata, di artigiani e piccoli contadini, che pone al centro
i problemi del credito e del prestito ad interessi limitati. Gli elementi
basilari dell’anarchismo proudhoniano sono il federalismo, il decentramento, il
controllo diretto da parte dei lavoratori, abolizione della proprietà (ma non
del possesso poiché reputato naturale), l'istruzione sotto il controllo degli
insegnanti e dei genitori, l'istruzione legata all’apprendistato ecc.
[2] Il blanquismo fu un movimento dottrinale e
attivista a favore, in primo luogo, della Repubblica e, una volta raggiunta,
del comunismo in Francia, che era in vigore durante il diciannovesimo
secolo, penetrò fino in fondo in modo dominante ed eccitante tra intellettuali
e studenti, e fu anche caratterizzato da una forte disciplina rivoluzionaria
combattiva. Deve il suo nome allo
scrittore, politico e leader di questa fazione, il francese Louis
Auguste Blanqui.